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Quando Morandi spiegava i rischi del suo ponte

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2018-08-19

L’ingegnere rilevava già nel 1979 i rischi derivati dalla salsedine e dall’inquinamento. E lanciava l’allarme corrosione

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“Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica”. A scriverlo a proposito del viadotto collassato a Genova il 14 agosto scorso era stato, in uno studio datato 1979, lo stesso progettista della struttura, l’ingegner Riccardo Morandi che rilevava già – come riporta oggi “La Verità” – i primi effetti sul ponte della salsedine e dell’inquinamento. Nella relazione dal titolo “Il comportamento a lungo termine dei viadotti sottoposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo: il viadotto sul Polcevera, a Genova”, scrive il quotidiano, Morandi lancia un concreto “allarme corrosione”.

Quando Morandi spiegava i rischi del suo ponte

“La struttura – scrive Morandi – viene aggredita dai venti marini (il mare dista un chilometro) che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto. Si crea così un’atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell’acciaieria (il vecchio stabilimento Ilva, ndr) e si satura di vapori altamente nocivi”. “Le superfici esterne delle strutture – segnala – ma soprattutto quelle esposte verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini, iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica”. Insomma, è già in atto una “perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo”. Morandi, scrive il quotidiano, accenna anche a non meglio definite “piastre” che “sono state letteralmente corrose in poco più di cinque anni”, quindi nel 1972, e “hanno dovuto essere sostituite, con processi piuttosto complicati, con elementi in acciaio inox”. L’ingegnere conclude insistendo sulla necessità di proteggere “la superficie in calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e meccanica all’abrasione”. E suggerisce l’impiego di resine e di elastomeri sintetici.

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