La storia della morte di Noa Pothoven. E perché la Meloni dovrebbe tacere

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-06-05

La leader di Fratelli d’Italia approfitta della morte di una ragazzina di 17 anni per fare un po’ di campagna elettorale a buon mercato contro la cultura della morte e l’eutanasia. Ma forse avrebbe fatto meglio a tacere, per rispetto nei confronti di Noa e della verità, perché ci sono molti dubbi riguardo al fatto che si sia trattato di eutanasia

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Certe scelte sono difficili da capire. La cosa migliore sarebbe limitarsi a rispettarle, in silenzio. Ma il silenzio non si addice a Giorgia Meloni che ieri ha sentito l’irrefrenabile impulso di commentare la decisione di Noa Pothoven, una ragazza olandese di 17 anni che in Olanda ha chiesto di poter essere lasciata morire. «Io non mi arrendo e continuerò a lottare contro la cultura della morte, contro una società insensibile che abbandona le persone fragili e offre alle vittime solo la possibilità di morire per alleviare il dolore» scrive la leader di Fratelli d’Italia su Facebook.

Giorgia Meloni contro la cultura della morte

In Olanda, spiegano i giornali, esiste una legge che consente anche ai minori di chiedere l’eutanasia. E se sei sovranista devi sovranare. Una brava sovranista dovrebbe rispettare la sovranità degli altri Stati e accettare il fatto che ogni nazione ha le leggi che ritiene opportune. In fondo non abbiamo mai sentito la Meloni lamentarsi per la pena di morte negli Stati Uniti, dove vengono condannati a morte anche ragazzi minorenni. Noa Pothoven ha invece chiesto di poter morire, e secondo i resoconti dei giornali è morta nei giorni scorsi a casa sua, assistita dai genitori.

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Non è molto chiaro invece in che modo si possa parlare di eutanasia, anche il sistema scelto sembra alquanto inusuale perché la ragazza ha deciso di lasciarsi morire di fame e di sete. L’unico aiuto medico è stata – riferisce Repubblica – la somministrazione di antidolorifici per alleviare il dolore. Marco Cappato però su Twitter scrive che quello di Noa non è stato un caso di eutanasia legale. In un’intervista rilasciata a dicembre del 2018 dove dichiara di aver chiesto di poter ottenere l’assistenza al suicidio (legale) e di aver ottenuto una risposta negativa.

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I medici della Levenseindekliniek, clinica specializzata nel fine vita e nell’eutanasia legale le avevano risposto che non era pronta, che avrebbe dovuto attendere fino ai 21 anni per una valutazione. Lei però questa vita non la voleva più vivere. Perché?

Chi era Noa Pothoven

È come dice Giorgia Meloni? Che lo Stato olandese ha abbandonato una vittima di stupro? La vicenda è più complessa. Noa ha raccontato di aver subito due violenze sessuali, la prima a 11 anni la seconda a 14 (da parte di due persone). Per vergogna e paura non ha mai denunciato i suoi stupratori che per questo motivo non sono mai stati identificati e processati. Le violenze però hanno lasciato un segno profondissimo nella ragazza che ha iniziato a soffrire di depressione e anoressia. Noa ha tentato molte volte il suicidio, e ne portava i segni sulle braccia.

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Non è nemmeno vero che non è stato fatto nessun tentativo per curarla o cercare di alleviare le sue sofferenze. È stata ricoverata in una clinica per il trattamento dei disordini alimentari, è stata ricoverata in tre diversi centri per specializzati in pazienti adolescenti, un giudice aveva stabilito dovesse essere ricoverata in un centro di salute mentale (ma – spiegava – le liste di attesa erano troppo lunghe) e veniva costantemente visitata da personale medico. Nonostante tutti questi sforzi (ci sono foto dove indossa un sondino nasogastrico per l’alimentazione artificiale) Noa non ha mai superato il trauma delle violenze. E soprattutto aveva perso la voglia di vivere e lottare.

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Aveva scritto di tutte queste sue esperienze in un libro, dove criticava anche il sistema burocratico e la difficoltà per i giovani e gli adolescenti di ricevere un trattamento terapeutico. Domenica Noa è morta e – scrive sempre il giornale Gelderlander – si era rivolta alla Levenseindekliniek senza che nessuno lo sapesse. In un ultimo post su Instagram che ora è stato rimosso Noa però aveva annunciato di avere smesso di mangiare e di bere già da qualche giorno e che entro poco avrebbe smesso di vivere. Non sembra che questo sia esattamente un protocollo per l’eutanasia legale. Sembra invece che più che di suicidio assistito si debba parlare di rifiuto delle cure.

Cosa possiamo dire di fronte alla morte di Noa Pothoven

I giornali italiani scrivono che la morte di Noa è avvenuta nella pressoché totale indifferenza dei media olandesi, forse abituati alle eutanasie legali o forse estremamente riservati. L’articolo cui fa riferimento Cappato è – come detto – del dicembre del 2018. Possibile che nel giro di sei mesi sia stata condotta una nuova valutazione e che l’equipe medica abbia dato l’assenso? La legge olandese prevede che la volontà del paziente debba essere espressa in maniera chiara con richieste ripetute nel tempo. Un secondo medico deve poi confermare la valutazione fatta dal primo e poi si può procedere con l’eutanasia. La scelta di lasciarsi morire di fame non sembra essere in linea con le procedure mediche raccontate sui giornali quando si parla di suicidio medicalmente assistito.

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Ammettiamo che quello di Noa sia stato un caso di eutanasia. Non ne aveva il diritto? È giusto fare come fa Giorgia Meloni cioè intromettersi in una vicenda personale di cui si sa poco o nulla (e quel poco che si sa potrebbe non essere del tutto vero) per denunciare i crimini della cultura della morte? No, non è giusto e non è rispettoso nei confronti di una persona che – in un modo o nell’altro – ha scelto di morire. Perché appiattire il dibattito alla “battaglia” contro lo stupratore che “così vince due volte” elimina dal discorso la sofferenza individuale, che scompare per lasciare spazio a chi sul corpo di Noa (come su quelli di altre persone) vuole condurre una battaglia politica. Scegliere di morire non è facile, e parlarne come se fossimo al bar non dà la misura delle sofferenze psicologiche patite da Noa Pothoven. La nostra società dovrebbe interrogarsi – e non è certo un lavoro facile da affidare ai post su Facebook – se abbia senso difendere ad oltranza la vita senza tener conto dei vissuti individuali. È successo per la morte di Robin Williams e succederà ancora, perché non esiste una risposta che vada bene per tutti quelli che in un modo o nell’altro scelgono di morire (ad esempio suicidandosi). Esiste, o meglio dovrebbe esistere, una certa sensibilità che dovrebbe consentire di non giudicare e soprattutto di capitalizzare una vicenda drammatica e personale per prendere i voti dei prolife.

Leggi sull’argomento: Ma è Whirlpool che prende per il c… gli operai o Di Maio?

 

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