Due indagati per l’ospedale di Alzano e un dubbio: perché la Regione Lombardia disse no alla zona rossa a Lodi?

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2020-06-16

L’identità dei due non è nota ma l’ipotesi di reato è quella di epidemia e omicidio colposi. Intanto l’ospedale di Lodi, mai chiuso, diventava uno dei più importanti focolai d’Italia, libero di potersi propagare fino a Milano

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Ci sono due iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Bergamo per la mancata chiusura del nosocomio di Alzano Lombardo mentre stava scoppiando l’emergenza Coronavirus SARS-COV-2 e COVID-19. L’identità dei due non è nota ma, scrive oggi il Corriere della Sera, l’ipotesi di reato è quella di epidemia e omicidio colposi.

Due indagati per l’ospedale di Alzano e un dubbio: perché la Regione Lombardia disse no alla zona rossa a Lodi?

Nessun dirigente e nessun medico dell’Azienda socio sanitaria territoriale di Seriate, competente su Alzano, avrebbe ricevuto al momento informazioni di garanzia secondo Armando Di Leandro e Desirée Spreafico che firmano il pezzo. Come persone informate sui fatti erano stati sentiti, già prima di metà maggio, l’ex direttore della Sanità regionale Luigi Cajazzo, il direttore generale dell’Asst di Seriate Francesco Locati e il direttore sanitario Roberto Cosentina.

Tutti avevano spiegato che il Pronto soccorso era stato riaperto soprattutto per far fronte all’epidemia e non perdere un presidio sul territorio: i magistrati tentano di capire se i pazienti con sintomi sospetti, ricoverati da più giorni prima di quel 23 febbraio, dovessero essere gestiti diversamente e se, a causa della loro presenza, non fosse necessaria una sanificazione più specifica sia del Pronto soccorso sia dei reparti. L’intervento, secondo le dichiarazioni del dg Locati, era stato eseguito da personale interno, a differenza di quanto avvenuto a Codogno (lì il Pronto soccorso rimase chiuso tre mesi).

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L’ospedale di Alzano e quello di Codogno (Corriere della Sera, 9 aprile 2020)

E in serata, durante il Consiglio comunale di Bergamo (in streaming) è andata in onda una lite furiosa tra il sindaco Giorgio Gori e la Lega. Al centro, di nuovo, le accuse dei leghisti a Gori di aver fatto pressioni contro la zona rossa. Un attacco per il quale il sindaco arriva a minacciare querele, mettendo sul tavolo un dettaglio mai prima raccontato: «Il 7 marzo, l’ultimo giorno prima che venisse chiusa tutta la Lombardia — il racconto di Gori —, il presidente Attilio Fontana disse a me e ad altri sindaci che aveva consultato i suoi esperti costituzionalisti, i quali sostenevano che la Regione non avesse potere di istituire la zona rossa. Alla luce di quanto avvenuto in altre regioni ritengo che quella indicazione, ammesso l’abbia ricevuta, non era corretta, come poi ha ammesso l’assessore Giulio Gallera». Il Corriere della Sera ha scritto domenica che furono il direttore generale del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, rimosso la scorsa settimana dal suo incarico, e il direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale di Seriate Francesco Locati, con il responsabile sanitario Roberto Cosentina, a stabilire di comune accordo di riaprire il presidio. Lo hanno dichiarato durante l’interrogatorio ai pm.

E lo fecero nonostante uno scontro durissimo con i medici e una comunicazione del direttore di presidio, Giuseppe Marzulli, che diceva: «È evidente che così il pronto soccorso non può restare aperto». I pubblici ministeri stanno valutando tutte le norme e i protocolli igienici sanitari in materia, cercando di contestualizzare la scelta della riapertura. Hanno anche acquisito informazioni sul ricovero ad Alzano, già da metà febbraio, di una decina di pazienti residenti a Nembro che avevano tutt i sintomi sospetti ma non venivano sottoposti al tampone perché non risultavano — come chiedevano le circolari ministeriali — aver avuto contatti diretti con la Cina o con persone provenienti da quel Paese.

Anche Lodi non fu mai zona rossa. I medici: “La Regione ci disse no”

Il Fatto Quotidiano invece ricorda la storia della mancata zona rossa a Lodi, così come annunciava il 22 febbraio una nota del Comune, seguendo le indicazioni di Regione e governo rispetto all’assenza di casi a Lodi solamente un giorno prima la scoperta del paziente 1 a Codogno. Due settimane, quindi, durante le quali circa 10mila persone ogni giorno hanno preso il treno, l’auto per andare da Lodi a Milano e qui muoversi con metropolitana e autobus.

AL 29 FEBBRAIO il 38% dei casi lombardi arrivava dal Lodigiano, oltre uno su tre. Massimo Vajani è il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi. Su questo non ha dubbi: “Più volte ai tavoli con la Regione ai quali ho partecipato ho sottolineato chela città di Lodi doveva essere considerata zona rossa,o almeno zona arancione, ma non sono stato ascoltato”. In quei giorni di fine febbraio e inizio marzo, il virus correva di più in queste zone. Al 2 marzo i casi erano 384 con la provincia di Bergamo a 243. Oggi, a distanza di quasi quattro mesi, non c’è paragone: la devastazione portata dal Covid nel Bergamasco è evidente. Lodi è molto più indietro.

ospedale di alzano focolaio coronavirus

Il punto qui però è un altro. In quei primi giorni l’obiettivo era contenere, ma lasciando aperto un Comune di quasi 50 mila abitanti al confine con l’epicentro del contagio, è stato difficile. “Ci sono – prosegue Vajani – ambulatori che stavano a tre chilometri dalla zona rossa ma non vi rientravano, per quale motivo?”.E ancora: “Tutti i pendolari in quei giorni andavano a Milano e lo facevano partendo da Lodi. Molti miei pazienti mi chiedevano giorni di malattia, perché a Milano, dove lavoravano, venivano considerati untori e rispediti a casa”. Il permesso per malattia non era consentito se non per coloro che rientravano nella zona rossa.

Sempre Vajani, intervenuto a un incontro dell’associazione Lodi liberale, presente anche l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ha spiegato: “Nei primi momenti dell’emergenza – riporta il Cittadino– ci siamo trovati a gestire la situazione senza direttive. Non c’è mai stata una voce unica che desse indicazioni. La Regione parla di previsione fin da gennaio, ma allora perché non è stata procurata una prevenzione sui dispositivi di protezione individuale a fronte di possibile epidemia? Il territorio doveva fare da filtro per evitare che si intasassero gli ospedali”. Nulla di ciò è stato fatto e l’ospedale di Lodi è diventato uno dei più importanti focolai d’Italia, libero di potersi propagare verso Milano.

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