Lidia Macchi: la lettera anonima che ha incastrato Stefano Binda

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-01-15

Arrestato oggi per l’omicidio del 1987, sarebbe l’autore della missiva che conteneva particolari inquietanti sulla morte della ragazza. Laureato in filosofia, l’uomo non era mai entrato nel giro dei sospettati nel corso delle indagini

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Stefano Binda è l’uomo arrestato oggi per l’omicidio di Lidia Macchi, studentessa trovata morte il 7 gennaio 1987 a Cittiglio, in provincia di Varese. Secondo le prime informazioni Binda, ex compagno di liceo della vittima, sarebbe l’autore della lettera anonima giunta alla famiglia dopo la morte della vittima e intitolata “In morte di un’amica“, che conteneva particolari esatti sulla morte della ragazza. L’arresto, dopo quasi trent’anni dal fatto, è stato eseguito dalla Squadra Mobile di Varese su disposizione del gip di Varese e su richiesta del sostituto pg di Milano, Carmen Manfredda.

Lidia Macchi: l’uomo arrestato per l’omicidio di trent’anni fa

Lidia Macchi era stata uccisa il 7 gennaio 1987 con 29 coltellate. Era andata a trovare una amica ricoverata all’ospedale a Cittiglio (Varese) e non era più tornata a casa. Il suo omicidio aveva fatto clamore anche perché dalla data della sua scomparsa, due giorni prima, genitori, amici, compagni di Comunione & Liberazione e forze dell’ordine l’avevano cercata ovunque fino al suo ritrovamento del suo corpo in un bosco. Lidia Macchi aveva vent’anni ed era studentessa di legge alla Statale di Milano e capo guida scout nella sua parrocchia di Varese. L’uomo arrestato stamani su disposizione del gip di Varese, Anna Giorgetti, è accusato di omicidio volontario aggravato. L’inchiesta sulla morte della ragazza era stata riaperta nel 2013 dal sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, che aveva avocato le indagini prima coordinate dalla Procura di Varese. Nell’ambito della nuova inchiesta il sostituto pg aveva anche archiviato la posizione di un religioso che conosceva all’epoca la ragazza e che era rimasto sempre formalmente sospettato, prima dell’archiviazione. Inoltre, l’inchiesta milanese aveva portato anche ad indagare su Giuseppe Piccolomo, già condannato all’ergastolo per il così detto delitto ‘delle mani mozzate’, avvenuto sempre in provincia di Varese. Una perizia sui reperti ritrovati sul corpo e sull’auto di Lidia Macchi, però, ha portato nei mesi scorsi a scagionare Piccolomo. Negli ultimi giorni la svolta nell’inchiesta, attraverso una serie di testimonianza e riscontri, che ha portato all’arresto di stamattina. Raccontava il Corriere della Sera qualche tempo fa:

Ci fossero stati i cellulari, del resto, quella sera del 5 gennaio 1987, forse l’ avrebbero salvata o forse avrebbero trovato il suo assassino in pochi giorni, incastrandolo in un incrocio di celle telefoniche. Invece Lidia Macchi, vent’ anni, studentessa di legge alla Statale di Milano, capo guida scout nella sua parrocchia di Varese, ciellina piena di passione per il Signore e d’ amore per il prossimo suo, s’ inoltrò ancora da sola in quell’ oscurità gelata. La trovarono una quarantina di ore dopo, la mattina del 7, faccia a terra, pugni chiusi, i collant infilati alla rovescia da qualcuno che non sapeva bene come fare per rivestirla, massacrata da trenta fendenti di un coltello da boyscout, accanto alla sua Panda, nel bosco di Sass Pinì, posto da tossici e da coppiette in vena d’ effusioni: posto non da lei. Aveva avuto un rapporto sessuale, probabilmente il primo della sua vita, e quasi di certo aveva subito violenza. Il cadavere era coperto da cartoni, come per pietà o pudore.
I sospetti trovavano forza in due lettere. La prima l’ avevano scoperta nella borsa di Lidia, era una lettera d’ amore, divenne quasi una prova a carico: «… dimmi perché sorridi, perché il tuo sguardo è così dolce, luminoso e reale, perché sollevi gli occhi al cielo e perché io non posso che arrendermi alla realtà… non so se ci sarà un futuro insieme per noi. Amen ». La seconda lettera, anonima e mandata ai Macchi, era un delirio mistico («il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace…») forse una confessione, e si chiudeva con un cerchio: un simbolo sacro o addirittura un’ ostia, pensarono in tanti.

Da quanto si è saputo, l’arrestato, Stefano Binda, conosceva la ragazza e qualche volta aveva anche frequentato la sua casa, anche se non era un amico stretto. Frequentava anche, come la studentessa, l’ambiente di Comunione e Liberazione. Laureato in filosofia, l’uomo non era mai entrato nel giro dei sospettati nel corso delle indagini. Tra gli elementi decisivi per arrivare all’arresto anche una perizia calligrafica sulla lettera anonima che venne inviata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali.

Una foto di Lidia Macchi
Una foto di Lidia Macchi


Indagini e presunti colpevoli

“La morte urla contro il suo destino. Grida di orrore per essere morte (…). Perché in questa notte di gelo, che le stelle sono così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace”, diceva ancora la lettera anonima di cui Binda sarebbe l’autore secondo la perizia. Un ex imbianchino, Pippo Piccolomo, che all’epoca del delitto viveva a Caravate, poco lontano dal bosco maledetto di Sass Pinì, finisce in galera per l’ assassinio di una anziana amica, Carla Molinari, corpo massacrato, mani mozzate per impedire agli investigatori di trovare tracce sotto le unghie della vittima, che ha lottato, ha graffiato. Piccolomo ha graffi addosso. E le sue figlie, liberate dall’incubo di un papà brutale, raccontano ai giudici: «Quando ammazzarono Lidia, nostro padre ci diceva di essere stato lui». Ma la prova del DNA lo scagiona: non è lui l’assassino. E allora si torna a lavorare sulla lettera. Per chi indaga, l’anonimo è l’assassino: il velo strappato citato nel testo rappresenta la verginità perduta. Particolare che solo chi ha ucciso poteva sapere. Nella lettera si evoca un agnello senza macchia, che piega il capo timoroso e docile. Lidia non si era ribellata a quel rapporto sessuale consumato prima di morire. Come faceva a saperlo l’anonimo?
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Stefano Binda, l’uomo arrestato oggi per l’omicidio di Lidia Macchi avvenuto quasi 30 anni fa, avrebbe prima violentato la ragazza e poi l’avrebbe uccisa perché sarebbe stato convinto che lei si era concessa e che non avrebbe dovuto farlo per il suo “credo religioso”, secondo quanto emerge dalla indagini che hanno portato stamani all’arresto. Sia l’uomo che la vittima frequentavano ambienti di comunione e liberazione e avevano studiato allo stesso liceo. Da quanto si è saputo in relazione all’imputazione di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa, Binda, 48 anni (aveva un anno in meno di Lidia Macchi all’epoca), avrebbe prima costretto la ragazza ad un rapporto non consenziente e poi l’avrebbe uccisa con coltellate “a gruppi di tre”. In particolare, l’uomo, laureato in Filosofia e descritto come “colto”, senza occupazione fissa (prima di essere arrestato viveva con la madre pensionata a Brebbia, nel Varesotto), e con un passato di droga negli anni ’90, sarebbe salito sull’auto della giovane il 5 gennaio 1987 nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio (Varese), dove Macchi si era recata per andare a trovare un’amica. L’auto con a bordo i due, sempre stando all’ imputazione, si sarebbe mossa fino a raggiungere una zona boschiva non distante e là Binda, secondo l’accusa, avrebbe prima violentato la ragazza e poi l’avrebbe punita uccidendola, perché nella sua ottica aveva “violato” il suo “credo religioso” ‘concedendosi’. Non è chiaro, nell’ambito delle indagini basate su una serie di indizi, se l’uomo abbia costretto la ragazza a salire in auto con lui nel parcheggio e ad appartarsi vicino al bosco. L’avrebbe, poi, colpita, dopo la violenza, con numerose coltellate prima in macchina e poi mentre cercava di fuggire all’esterno. I colpi, in particolare, sarebbero stati inferti “alla schiena” e anche ad una gamba mentre stava cercando di scappare. Lidia Macchi sarebbe morta per le ferite e per “asfissia” e dopo una lunga “agonia” in una “notte di gelo”. Quest’ultimo passaggio del capo di imputazione, formulato dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, riprende alcune parole scritte nella misteriosa ed inquietante lettera anonima che arrivò il giorno dei funerali alla famiglia Macchi. Lettera che, secondo le nuove indagini, sarebbe stata scritta proprio da Binda.

Lidia Macchi: la lettera dell’assassino

In morte di un’amica
La morte urla contro il suo destino. Grida di orrore per essere morte: orrenda cesura, strazio di carni. La morte grida e grida l’uomo della croce. Rifuto, il grande rifiuto. La lotta la guerra di sempre. E la madre, la tenera madre con i fratelli in pianto. Perché io. Perché tu. Perché, in questa notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace. Come puoi rimanere appeso al legno. In nome della giustizia, nel nome dell’uomo, nel nome del rispetto per l’uomo, passi da noi il calice. Ma la tetra signora grida alte le sue ragioni. Consumatus est questo lo scritto dell’antichissimo errore E tu agnello senza macchia e tu agnello purificato che pieghi il capo timoroso e docile, agnello sacrificale, che nulla strepiti, non un lamento. Eppure un suono, persiste una brezza ristoro alle nostre aride valli in questa notte di pianti. Nel nome di Lui, di colui che cui ha preceduto, crocifissa, sospesa a due travi. Nel nome del Padre sia la tua volontà.

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