Attualità

Le donne nordcoreane che scappano per una nuova vita e diventano schiave del sesso in Cina

di Armando Michel Patacchiola

Pubblicato il 2019-09-17

Donne nordcoreane, spesso bambine, scappate in Cina perché attratte dal sogno di un futuro migliore. Ignare, invece, di essere state ingannate e svendute ai loro aguzzini. Donne obbligate a prostituirsi per pochi spiccioli (meno di quattro euro) o vendute a dei magnaccia per poche migliaia di euro

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Sguardo perso nell’oscurità sincerato dietro a un busto amico, rassicurante e protettivo. Il primo dopo anni di costrizioni, violenze e sevizie. Kim Ye-na, 23 anni e Lee Jin-hui, 20, sono ora tra le braccia del reverendo Chun Ki-won, un pastore cristiano della Corea del Sud che grazie alla sua associazione Durihana, dal 2000, ha finanziato e salvato oltre 1.200 donne nordcoreane. L’orco che le ha rinchiuse in una stanza, drogate, evirandole così di ogni vergogna, è ancora un ricordo ruvido e vivido, ma ora le due ragazze nordcoreane sono salve. Anche se i segni che ne comprimono il volto e i dolorosi ricordi sono ancora evidenti. La loro storia è stata raccontata in un lungo articolo il New York Times (NYT), uno dei quotidiani più autorevoli al mondo, e rappresenta uno scenario plastico, crudo e reale di una delle zone più di interesse per i mercati e per alcuni leader politici internazionali: la Cina, la seconda economia più florida del pianeta, e la Corea del Nord, uno dei regimi più repressivi nel panorama internazionale. Una storia, quella raccontata dal quotidiano americano, che è fatta di donne nordcoreane, spesso bambine, scappate in Cina perché attratte dal sogno di un futuro migliore. Ignare, invece, di essere state ingannate e svendute ai loro aguzzini. Donne obbligate a prostituirsi per pochi spiccioli (meno di quattro euro) o vendute a dei magnaccia per poche migliaia di euro. Kim Ye-na e Lee Jin-hui sono tra le donne più fortunate, perché sono riuscite a scappare. Vogliono lasciarsi alle spalle gli anni della loro giovinezza, appassita prima dall’“Hardous March”, la carestia che negli anni ’90, in Corea del Nord, ha emaciato e ucciso centinaia di migliaia di persone, e poi dalle violenze sessuali e psicologiche subite durante la prigionia in Cina. Quella che nel buio della loro stanza ancora oggi ne angustia i labili sonni e i trepidanti risvegli che ostentano l’inferno cinese.

Fuga dalla Corea del Nord

Il fenomeno, sempre più ampio, secondo i dati diffusi da KFI, riguarderebbe oggi 6 donne nordcoreane su 10 tra quelle che si sono trasferite in Cina. Un fenomeno che dato l’inasprimento dei controlli imposto dal 2011 dal regime nordcoreano sta diventando più raro, costoso e pericoloso. Spesso i trafficanti arrivano a minacciare persino i familiari dei fuggiti all’estero, a cui spesso è stato chiesto un riscatto per salvare la vita ai familiari in pericolo. La popolazione nordcoreana in Cina, secondo i dati dello United Nations Human Rights Council (OHCHR) del 2014, ammonterebbe a 200.000, quindi non moltissimi rispetto alla popolazione complessiva (quasi 1.4 miliardi). La Corea del Sud, invece, oggi conta 32 mila talbukcha (così vengono chiamati in Corea del Sud coloro che scappano dalla Corea del Nord), con un aumento complessivo di mille-mille e cinquecento persone l’anno. La Corea del Sud rimane una delle mete preferite nonostante il calo degli arrivi che si è registrato dal 2011, ossia da quando Kim Jong Un è diventato la guida suprema del Paese. A cambiare, se si confrontano i numeri del 1998, è anche il sesso dei disertori: se prima erano più uomini che donne, circa 8 su 10, oggi è il contrario, visto che a scappare in Corea del Sud sono 8-9 donne su dieci. Numeri non distanti da quelli complessivi, che evidenziano come in sette casi su 10 i disertori siano di sesso femminile (71 percento).

disertori della Corea del nord SCMP

Verso la prostituzione, un fenomeno in crescita

Korea Future Initiative (KFI), un’organizzazione no profit con sede a Londra che da dieci anni monitora la qualità della vita dei nordcoreani in esilio ha stimato in 105 milioni di dollari il volume d’affari generato dalla fitta trama criminale tessuta dal mercato schiavitù sessuale, e dalla compravendita delle donne nordcoreane oppresse in Cina. Non molto, ma abbastanza da sostenere una rete criminale definita da KFI «un’industria illecita altamente redditizia […] che coinvolge broker, trafficanti di esseri umani, pubblici funzionari e i clienti, che pagano per comprare, stuprare e o aggredire sessualmente donne e ragazze». Una rete, diventata ormai transnazionale, che KFI si propone di sviscerare e combattere, non lesinando critiche a un regime, quello nordcoreano, basato su «uomini che disprezzano le donne» che poi si danno alla fuga. Il fenomeno, secondo i dati diffusi da KFI, riguarda donne dai 12 ai 29 anni di età, ma come racconta il NYT anche bambine di nove anni, costrette a esibizioni a luci rosse davanti a una webcam e sottoposte a pesanti vessazioni in caso non vengano raggiunti risultati economici soddisfacenti. Il dato che più preoccupa e che evidenzia la KFI è che è che questo fenomeno stia subendo una metamorfosi veloce e capillare, soprattutto dopo la morte di Mao Zedong (1976), primo presidente e fondatore della Repubblica Popolare Cinese (ROC), a cui ha fatto seguito un maggiore decentramento amministrativo e maggiori poteri ai clan locali. Secondo alcuni dati in un caso su due (il 50 percento) una donna nordcoreana si trasforma in schiava entro i primi dodici mesi di soggiorno in Cina. Questo anche perché formalmente la Cina, che assieme alla Russia è uno dei migliori alleati di Kim Jong Un, tende a trattare i migranti nordcoreani non come rifugiati, ma come migranti economici, esponendoli così alla malavita. Vendere una donna nordcoreana, secondo il report della KFI, genera guadagni che seppur esigui per gli standard occidentali, possono toccare cifre dieci volte superiori allo stipendio medio dell’area. Cifre che secondo i dati ufficiali rilasciati dal Governo cinese rappresentano la metà rispetto a quanto percepito nelle zone più ricche: Shanghai o Pechino. Seppur concentrati soprattutto nelle città satellite che costellano le periferie del sud est della Cina, soprattutto a Jilin, la tratta delle donne nordcoreane è diventata più capillare e omogenea rispetto al passato, per esempio, rispetto agli anni ’80, quando le donne, per lo più provenienti dalla regione coreana di Nord Hamgyong, nell’estremo nord est, varcavano il confine cinese per acquistare beni da rivendere nei jangmadang, i mercati illegali, diventando però preda del mercato della prostituzione o dei matrimoni forzati. Il fenomeno stando ai dati diffusi da KFI è aumentato anche rispetto agli anni ‘90, quando quasi 10 mila nordcoreani che intimoriti dalle minacce di rimpatrio in Corea del Nord, sono stati immessi nel traffico degli esseri umani. Gli uomini e i bambini perlopiù schiavizzati nelle fabbriche, nei campi o nell’edilizia, e le donne vendute per sesso o schiavitù varie. Tra queste quelle dei matrimoni forzati, che pur essendo illegali sono comunque molto comuni in alcuni centri della Cina rurale, dove le donne locali spesso emigrano altrove e la loro assenza rischia di generarne lo spopolamento.

La prostituzione in Cina e la svolta web

Nonostante sin dalla sua salita al potere nel 1949, il Partito Comunista Cinese abbia sradicato il fenomeno della prostituzione, oggi questo fenomeno «ha fatto uno spettacolare ritorno, sottotraccia, naturalmente, visto che è ancora illegale» ha scritto Lijia Zhang sul South China Morning Post (SCMP), un valido quotidiano scritto lingua inglese. «La prostituzione rimane una visibile e significativa componente della vita quotidiana cinese» si legge nel report KFI, con «oltre 10 milioni di prostitute» che operano in Cina, nascoste in attività di facciata, come piccoli hotel, centri massaggi, bagni turchi, centri benessere o parrucchieri, dove possono ricevere anche fino a 9 clienti al giorno. In generale il fenomeno della prostituzione contribuirebbe per il 6 percento sul prodotto interno lordo cinese (Pil). Ma dato il continuo sviluppo dell’economia virtuale, i numeri in futuro potrebbero aumentare. Ecco perché da un po’ di tempo a questa parte molti magnaccia hanno spostato la loro attenzione anche sul versante web: con donne obbligate a chattare, masturbarsi, o ad avere rapporti sessuali davanti alla webcam. Questo tentativo, si legge nel report, ha permesso ai criminali di intercettare ulteriori guadagni. Secondo alcune stime il porno on line è un’industria globale che entro il 2020 potrebbe salire a 10 miliardi di dollari. Sul NYT il reverendo Chun Ki-won ha giustificato questa tendenza collegandola anche «alla crescente repressione della Cina sugli stranieri privi di documenti» facendolo diventare «il modo preferito dai trafficanti di esseri umani» di sfruttare le donne. Non è un caso che spesso la Cina sia ritenuta un Paese di passaggio e che i migranti nordcoreani preferiscano approdare poi in un Paese terzo, come Russia, Vietnam, Laos, Corea del Sud o Giappone. Il 2018, comunque, è stato un annus horribilis per il porno in Cina, visto che sono stati oscurati oltre 22 mila siti pornografici e più di un milione di pubblicazioni pornografiche. Nonostante il porno on line possa sembrare meno invasivo e cruento, ci sono stati casi in cui le ragazze sono state violentate e costrette a rimanere sveglie con l’ago. Un modo per non rendere visibili «segni delle violenze […] sulla webcam», ha raccontato la signora Jang a KFI.

new york times _ donne nordcoreane costrette alla prostituzione

Altre testimonianze

Tra le testimonianze più dure tra tutte quelle riportate in “Sex Slaves”, il report rilasciato lo scorso maggio da KFI, c’è quella della signora Song, che ha parlato di una donna rimasta mutilata durante rapporti sessuali multipli, o quelle della signora Kwon, che ha raccontato di aver visto una ragazzina di 14 anni stuprata da un uomo «che voleva aiutarla» e che è rimasta poi con i segni sui vestiti, senza un cambio d’abito o le cure di rito, nonostante fosse in un centro monitorato da adulti. Un altro elemento molto comune nelle testimonianze è quello che vede coinvolti in molti casi agenti delle forze dell’ordine cinesi, che in alcuni casi anziché rimpatriare le vittime le avrebbero traspote altrove, consegnandole nelle mani dei trafficanti. Altre testimonianze raccontano di donne rilasciate ai mariti o agli aguzzini dietro il pagamento di una tangente. Segno che, in generale, il fenomeno non sia particolarmente osteggiato. Si tratta di casi sporadici e, si precisa in una nota del report, nonostante ciò non sono state rilevate prove concrete di eventuali legami sistemici che possano collegare gli ufficiali alle attività della criminalità organizzata.

 

Una fuga prima sognata e poi diventata reale

Per anni la Cina ha rappresentato il sogno di una vita migliore per i nordcoreani, soprattutto per le donne, che con il collasso del sistema nordcoreano sono state relegate sempre più ai margini della società. Generalmente la discriminazione inizia durante l’infanzia, per esempio nelle scuole, dove i professori favoriscono i ragazzi nei ruoli di leadership. Numerose discriminazioni si verificano anche nelle università, dove le donne faticano di più rispetto agli uomini a essere ammesse agli studi. Situazioni che si ripercuotono e si ripetono anche nel mondo del lavoro. Anche per questi motivi le donne scappano dalla Corea del Nord: prima con la fantasia, sognando a occhi aperti davanti ai film di contrabbando, poi armandosi di bagagli e di coraggio. Sul SCMP la giornalista Anne Babe ha parlato di questo: di due ragazze nordcoreane So Won e So Yeon (nomi di fantasia) che evadono dalla realtà imposta dai regimi dei Kim e che sono diventate donne sognando attraverso l’uso inconsapevole (e pressappochista) dei beni di largo consumo stranieri reperiti nei jangmadang. Una rivoluzione consumata in segreto, a colpi di rossetto, rimmel, jeans e abiti alla moda in voga in Occidente o nelle mode asiatiche più evolute. Il regime nordcoreano impone infatti alle donne di indossare «una gonna mai sopra al ginocchio e camicie modeste», senza particolari eccessi nel trucco o nell’acconciatura. Babe ha scritto che «la più grande minaccia per il Joseon Rodongdang (WPK), il partito dei lavoratori che guida la Corea del Nord», sia arrivata proprio dall’«altro “dang”, il jangmadang». Una normalità vietata, e che purtroppo negli anni è divenuta solo un’effimera rappresentazione, in quanto lontana dalla realtà sognata e agognata. E che oggi è sempre più irta di insidie, nel generale silenzio della comunità internazionale.

Un incubo chiamato Corea del Nord

Se la vita altrove per gli immigrati è più dura di quanto immaginato, è da considerarsi comunque migliore rispetto a quella in Corea del Nord. La Repubblica Popolare Democratica di Corea (DPRK), più comunemente nota come Corea del Nord o Nord Corea, è uno degli stati più autoritari al mondo. L’11 dicembre 2017, per il quarto anno consecutivo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha inserito le gravi violazioni dei diritti umani in Corea del Nord tra le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. Tutti i servizi di telecomunicazioni, quelli postali e di trasmissione sono di proprietà dello Stato, e nel Paese non ci sono veri giornali indipendenti. Nei quasi otto anni di dominio Kim Jong Un ha ristretto molte libertà civili e politiche, tra cui la libertà di associazione, di organizzazione dei partiti politici di opposizione o di religione. Molte donne e uomini, 120.000 secondo le stime di Amnesty International, sono detenuti nei quattro campi di prigionia politica conosciuti (Kwanliso) dove sono sottoposti a lavori forzati e vessazioni di ogni genere. Tra questi ci sono molti disertori, trattati alla stregua di traditori della nazione, e che nonostante i pericoli sono stati riaccompagnati al confine dalle autorità straniere (con evidenti violazioni della della Convenzione sui rifugiati del 1951 e del suo protocollo del 1967). Condanne sommarie, torture o esecuzioni arbitrarie sono inoltre molto comuni tra i cittadini. Questo nonostante la Corea del Nord abbia ratificato cinque trattati sui diritti umani: quello sui diritti dell’infanzia (CRC), sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), quello sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR). In alcuni casi, come negli ultimi due enunciati, il rapporto dello stato della Corea del Nord è scaduto da oltre un decennio senza che sia stato aggiornato. Come riporta Amnesty International «sebbene il governo abbia intrapreso alcuni passi positivi nelle relazioni con i meccanismi internazionali per i diritti umani, la situazione sul campo non ha mostrato reali progressi».

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