Attualità
La mappa delle famiglie di 'ndrangheta in Calabria
di neXtQuotidiano
Pubblicato il 2017-07-05
La testa pensante dell’organizzazione nel fazzoletto di terra che va dall’Aspromonte al Mar Jonio. Le famiglie che controllano il territorio
Ieri oltre mille carabinieri hanno eseguito i 116 fermi (due persone sono ancora latitanti) disposti dalla Dda di Reggio Calabria. Dalle prime luci dell’alba hanno stretto d’assedio i 21 Paesi del Mandamento jonico. Un territorio saldamente in mano alle cosche, di cui è possibile il riepilogo grazie all’infografica pubblicata oggi da La Stampa. L’inchiesta, spiega il quotidiano, è stata anche dedicata all’apparato giurisdizionale della ’ndrangheta, diviso in tre livelli: il Consiglio Locale, un Consiglio direttivo generale (costituito da almeno 5 locali) e la Provincia. Un vero e proprio tribunale delle cosche dove vengono giudicati gli affiliati che si sono macchiati di «colpe», «trascuranze» o «sbagli». Alla fine del «processo» arriva la sentenza non appellabile e che prevede anche la pena di morte.
Tanto che un 15enne si è recato a casa del boss Antonio Cataldo per consegnare a moglie e figlia una lettera per il congiunto detenuto in cui chiedeva di essere affiliato alla sua cosca. “Chiedo a voi di essere affiliato e di ritenermi a disposizione della vostra famiglia” scriveva il ragazzino nella lettera che non è mai giunta a Cataldo per la paura di moglie e figlia di essere intercettate in carcere. Nel “mandamento” ionico – da qui il nome dell’operazione, “Mandamento”, appunto – le cosche facevano il bello ed il cattivo tempo. Non c’era affare o appalto dove i clan non riuscissero a mettere le mani. E quando non riuscivano ad arrivare alla gestione diretta, provvedevano comunque a lucrare o con le classiche estorsioni, oppure infiltrandosi nei lavori imponendo le proprie ditte di manodopera o di nolo a caldo e freddo.
Il tutto, ovviamente, senza dare alcuna comunicazione alle autorità preposte dell’avvenuto subappalto, così da sviare i controlli. “Nel 2017 assistiamo a forme di schiavizzazione e di controllo del territorio tali che diventa persino difficile credere che possano essere attuati” è stato il commento del capo della Dda reggina Federico Cafiero de Raho. Le cosche erano riuscite ad infiltrarsi persino nei lavori per la realizzazione del nuovo palazzo di giustizia di Locri, dell’ostello della gioventù, del centro di solidarietà Santa Marta e di istituti scolastici, nonché nella gestione di terreni pubblici e nell’assegnazione degli alloggi popolari.
Ma non solo appalti e lavori pubblici finivano nelle mani delle cosche. Dall’inchiesta è emerso infatti che Rosario Barbaro, detto “Rosi”, capo del locale di Platì, esercitava un controllo sugli operai del “Consorzio di bonifica dell’Alto Jonio Reggino” che venivano impiegati per lavori edili di manutenzione nelle proprietà del boss mentre venivano retribuiti dal Consorzio per la bonifica del territorio. Anche i contributi comunitari per l’agricoltura non sfuggivano alle ‘ndrine. L’indagine ha consentito di definire il complesso sistema di regole e rituali della ‘ndrangheta, aggiornando le acquisizioni sul tema provenienti dall’indagine “Crimine”, individuando nuove cariche, doti e strutture sovraordinate di cui l’organizzazione si era da dotata ultimamente per migliorare la sua efficienza operativa.
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