La promessa di Renzi sul fiscal compact

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-11-07

«Monti, Bersani e Brunetta ci hanno regalato il Fiscal compact. Nel 2017 l’Italia dirà no al suo inserimento nei trattati», dice il premier. Il quale aggiunge che la politica dell’austerity è fallita. Ma intanto Juncker…

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«Nel 2017 il Fiscal compact, le regole del pareggio di bilancio, dovrebbero entrare nei trattati. Io sono nettamente contrario a questa ipotesi. Monti, Bersani e Brunetta ci hanno regalato il Fiscal compact. Nel 2017 l’Italia dirà no al suo inserimento nei trattati»: Matteo Renzi, nelle more della miliardesima anticipazione del libro di Bruno Vespa, fa una promessa precisa. Il 2017, spiega Renzi, “al netto delle elezioni francesi, tedesche e olandesi, sarà l’anno in cui, in un senso o nell’altro, si metterà la parola fine alle discussioni sulle politiche europee. La politica dell’austerity è fallita”, sentenzia il premier.

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Cosa prevede il fiscal compact (Il Messaggero)

La promessa di Renzi sul fiscal compact

Non è la prima volta che Renzi parla del fiscal compact. I primi segnali di ostilità erano arrivati all’epoca della preparazione della prima legge di stabilità del governo Renzi. Anche il ministro Padoan all’inizio dell’anno aveva mandato segnali forti in tal senso mentre sempre Renzi aveva fatto trapelare alcune ipotesi di reinterpretazione del Patto di Bilancio Europeo. Il Fiscal compact è un trattato intergovernativo, pensato dopo il panico sui mercati del 2011, e firmato il 2 marzo 2012 da tutti i membri Ue (tranne Regno Unito, Croazia e Repubblica Ceca): impone una serie di regole, una versione più rigida del patto di Stabilità. In particolare, ai Paesi con un debito superiore al 60% del PIL (tra cui l’Italia) impone di ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno. Inoltre, il deficit non può superare il 3%. Il pareggio di bilancio strutturale, calcolato al netto del ciclo e delle una tantum, era previsto in origine nel 2014 ma è slittato al 2019. All’Italia il Fiscal Compact fa paura perché chiede che venga ridotta di un ventesimo la parte del rapporto debito pubblico/Pil che supera il 60%. Il che si traduce (a parametri di debito, Pil e inflazione invariati) in manovre da oltre 50 miliardi di euro l’anno. Keynesblog ha calcolato qualche tempo fa l’ammontare del fiscal compact negli anni a venire secondo quanto ci siamo impegnati a fare. «Su questa base, piuttosto ottimista, abbiamo calcolato a quanto dovrebbe ammontare l’avanzo primario nei conti pubblici per poter arrivare, nel 2035, all’obiettivo di rapporto debito / Pil pari al 60%. Come si vede dalla tabella che segue, l’ammontare assoluto del debito continuerebbe a crescere fino al 2021 per calare soltanto in seguito. Ma, soprattutto, per portare nell’arco del periodo esaminato l’incidenza del debito pubblico al 60% del Pil, occorrerebbe realizzare (e mantenere per quasi vent’anni) un avanzo primario non inferiore al 4,5% del prodotto (comunque supposto in crescita in termini monetari). E tale risultato dovrebbe essere ottenuto mediante un maggior prelievo fiscale ed una minore spesa pubblica con ricadute devastanti sulla dinamica del Pil, che ben difficilmente potrebbe mantenersi sul ritmo di crescita ipotizzato dell’1,6%.».
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Cosa succede con il Fiscal Compact?

All’articolo 16 del fiscal compact è stabilito che entro 5 anni dalla sua entrata in vigore (1/1/2013) le sue norme devono essere oggetto di un processo di inserimento nell’ordinamento comunitario; è evidente che se Renzi vuole davvero fare la guerra al Patto di Bilancio Europeo è quello il momento giusto. Il punto è: come? Gustavo Piga sul Sole 24 Ore propone una revisione radicale: «Il criterio di base di questo lavoro dovrebbe essere l’eliminazione dai vincoli di bilancio di tutte le spese pubbliche definite, con cura e precisione, di investimento, secondo regole e monitoraggi costruiti in modo rigoroso a livello comunitario e applicati da organismi comunitari del tutto indipendenti dai governi e dagli apparati nazionali. Per questa quota di investimenti nazionali riconosciuti come spese di investimento (e tra queste dovrebbero rientrare oltre le infrastrutture materiali anche l’istruzione e la ricerca) dovrebbe inoltre risultare agevole costruire forme di copertura comunitaria a debito e/o forme di garanzia diretta e indiretta del bilancio comunitario, a cui occorrerebbe garantire uno zoccolo fiscale europeo più significativo».


Ma il bello è che proprio oggi Jean Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, sulla Legge di Stabilità 2017 italiana riesce a dire: “Saggezza vorrebbe che tenessimo conto del costo dei rifugiati e del terremoto in Italia, ma tali costi equivalgono allo 0,1% del PIL: l’Italia ci aveva promesso di arrivare a un deficit dell’1,7% nel 2017 e ora ci propone il 2,4% quando, appunto, questo costo si riduce a 0,1% del prodotto”. E stiamo parlando di uno 0,7%. Mentre Renzi a parole si movimenta spesso la vita con Bruxelles, ma nei fatti i termini della trattativa sono questi. Stavolta fa sul serio o si tratta dell’ennesimo contentino pro-referendum?

Leggi sull’argomento: Quei miliardi che mancano per l’emergenza terremoto

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