Una via d'uscita per lo Stadio della Roma a TdV

di Alberto Mencarelli

Pubblicato il 2017-03-04

La vicenda sembra avviata verso un’impasse con la guerra tra Comune e Regione. E a farne le spese è un progetto che rischia un rinvio sine die. Ma una soluzione per salvare lo stadio e anche le opere pubbliche c’è. Vediamola

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Nella riunione di ieri la Conferenza dei Servizi decisoria sul progetto dello Stadio della Roma a Tor di Valle ha correttamente negato la concessione di una ulteriore proroga dei lavori richiesta dal proponente. Come ho già scritto altrove, nessuna disposizione consente infatti di ritenere ammissibili dilazioni del termine perentorio di conclusione dei lavori delle conferenze dei servizi, specie quando si tratti di quelle a carattere decisorio. Ma dietro il velo di correttezza formale di cui si ammanta la decisione di ieri, si nasconde in realtà un’anomalia sostanziale se possibile ancora più singolare, rappresentata dalla contestuale decisione di differire comunque al 5 aprile l’assunzione della determinazione finale da parte dell’amministrazione procedente.

Una via d’uscita per lo Stadio della Roma a Tor di Valle

Si tratta di una anomalia che di fatto dissimula quello che ufficialmente si nega di poter concedere (cioè una ulteriore sospensione dei lavori) dal momento che per il comma 304, lettera b), della legge n. 147/2013 il termine massimo di 180 giorni – che per la cronaca scade il 6 marzo – costituisce il termine entro cui non solo devono terminare le riunioni della conferenza dei servizi ma deve anche essere adottata la determinazione motivata di conclusione. Siamo pertanto in presenza di una proroga mascherata, adottata tra l’altro con un voto a maggioranza e non, come sarebbe stato più rituale, con una semplice presa d’atto (istituto, questo, che meglio si attaglia alle determinazioni dall’esito obbligato in base a precisi vincoli normativi).

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Lo stadio della Roma senza torri (Il Tempo, 24 febbraio 2017)

Per motivare la legittimità di questa ulteriore dilazione si adducono argomenti che mi paiono assai deboli dal punto di vista giuridico. Si è detto, anzitutto, che il termine sarebbe già stato sospeso una prima volta su richiesta di Roma Capitale e che pertanto, scomputando quel periodo di sospensione, si avrebbe ancora a disposizione un margine temporale che consentirebbe di arrivare fino al 5 aprile. Ma per argomentare questa ricostruzione si richiama una disposizione che poco o nulla ha a che vedere con la disciplina della conferenza dei servizi: l’articolo 2, comma 7, della legge n. 241/1990, il quale prevede testualmente quanto segue: ”Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell’articolo 14, comma 2″. Tale norma, però, riguarda più propriamente i procedimenti amministrativi monocompetenziali, ossia per i quali la competenza appartenga ad una sola amministrazione, e non riguarda invece il particolare modulo procedimentale rappresentato dalla conferenza dei servizi: non a caso, l’ultimo periodo dell’art. 2, somma 7, della legge n. 241/1990 fa riferimento alla conferenza dei servizi solo in quanto strumento di risoluzione delle problematiche che abbiano motivato la sospensione del procedimento d’origine. Quello all’art. 2 della legge n. 241, pertanto, mi sembra un richiamo del tutto irrituale che nulla aggiunge a sostegno della tesi favorevole ad ammettere la possibilità di sospendere per una volta e per non più di trenta giorni anche i procedimenti già approdati in conferenza dei servizi, per i quali la relativa disciplina speciale – specie a seguito delle semplificazioni e accelerazioni dettate dalla riforma introdotta con il d. lgs. n. 127/2016 – in nessun punto rinvia all’istituto della sospensione ex art. 2 co. 7 o a fattispecie analoghe.

L’impasse e la guerra tra Comune e Regione

Un altro argomento utilizzato per giustificare la legittimità della dilazione al 5 aprile della decisione finale è quello secondo cui vi sarebbe una distinzione tra la durata della conferenza dei servizi (che sarebbe di 90 gg.) e la durata della complessiva procedura (che sarebbe, invece, di 180 gg., come stabilito dalla legge n. 147/2013). Ma anche questo è un appiglio procedurale che appare francamente alquanto debole: il comma 304, lett. b), della legge n. 147/2013 non distingue, infatti, tra una più ampia durata della procedura e una più ristretta durata della conferenza dei servizi decisoria, limitandosi a stabilire che “la conferenza di servizi e’ convocata dalla regione, che delibera entro centottanta giorni dalla presentazione del progetto”. Ammesso pur tuttavia che tale distinzione possa avere un qualche fondamento normativo, resta il fatto che la deliberazione conclusiva della regione altro non può essere che la fedele traduzione dei contenuti dell’atto endoprocedimentale rappresentato dal verbale conclusivo della conferenza dei servizi. E, quel che più conta, entro il termine di 180 gg. (decorrente dalla presentazione del progetto e, dunque, dalla data in cui lo stesso è stato trasmesso dal comune alla regione Lazio), deve comunque aver luogo la deliberazione dell’amministrazione procedente e non solo l’ultima riunione della conferenza dei servizi.

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Credits: TDVProject via Twitter.com

Ma le anomalie non finiscono qui. L’ulteriore mese a disposizione della regione prima dell’adozione della determinazione conclusiva del procedimento servirebbe anche, e soprattutto, ad attendere che il comune completi (ma sarebbe meglio dire “inizi”) la procedura di verifica-ridefinizione dell’interesse pubblico del progetto (in esito all’accordo raggiunto con l’AS Roma la scorsa settimana) e che sia, quindi, formalmente presentato in seno alla conferenza dei servizi decisoria il nuovo progetto rimodulato, del quale per ora si hanno solo anticipazioni parziali risultanti dalle dichiarazioni dei protagonisti e dalle ricostruzioni della stampa. Se però quelle anticipazioni dovessero risultare confermate e se il nuovo progetto fosse davvero profondamente diverso da quello sulla base del quale è stata incardinata l’attuale conferenza dei servizi, quest’ultima non avrebbe titolo ad esaminarlo, dal momento che si tratterebbe di un progetto modificato oltre il limite legale dello “strettamente necessario”. Esso dovrebbe invece radicare un procedimento del tutto nuovo, nell’ambito del quale andrebbe quanto meno avviata ex novo la conferenza dei servizi decisoria con un nuovo termine finale di 180 giorni. E ciò senza considerare l’ulteriore questione – forse superabile invocando il principio di economia dei lavori – di un procedimento che si innesterebbe su un precedente procedimento non concluso e in cui risulterebbe alterata la stessa sequenza cronologica e procedurale richiesta dalla legge n. 147/2013, la quale non contempla la possibilità di rivisitazioni, conferme o revisioni in itinere di una dichiarazione di interesse pubblico già approvata ed esige che il voto consiliare sul pubblico interesse preceda – e non segua – l’avvio della conferenza. In tutta questa congerie di singolarità procedurali, una via d’uscita forse, però, esiste.

I poteri sostitutivi del governo

La Regione potrebbe far scadere l’ulteriore termine del 5 aprile senza adottare alcuna determinazione conclusiva, lasciando al proponente aperta la via del ricorso ai poteri sostitutivi della Presidenza del Consiglio dei ministri sul precedente progetto ovvero, se le condizioni politiche generali non consigliassero di percorrere questa via, di impugnare davanti al giudice amministrativo il silenzio inadempimento creatosi con la mancata adozione della decisione finale. A ben vedere, questa sarebbe anzi, per quanto detto sopra, la soluzione maggiormente rispettosa dello spirito della legge n. 147, avendo la regione esaurito il potere di deliberare con lo spirare del termine dei 180 giorni (in scadenza il prossimo 6 marzo). Ogni ulteriore attività istruttoria (come nuove integrazioni documentali) o deliberativa posta in essere oltre quella data andrebbe pertanto considerata tamquam non esset e la regione ne dovrebbe trarre le conseguenze astenendosi dall’assumere qualunque determinazione per sopravvenuto difetto di competenza.

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L’iter dello stadio della Roma secondo la legge (da StadiodellaromaFAQ)

In tal modo, l’amministrazione procedente lascerebbe al soggetto proponente l’onere della scelta tra l’opzione di ritornare al progetto originario – a favore del quale potrebbe, come detto, richiedere l’intervento della Presidenza del Consiglio ovvero rivolgersi al TAR Lazio mediante l’impugnazione del silenzio inadempimento – ovvero di tener fede all’accordo raggiunto con il comune a favore di un progetto rimodulato con minori volumetrie edificatorie e minori opere pubbliche, sul quale occorrerebbe ripartire con una nuova procedura ed una nuova conferenza dei servizi decisoria. Soluzione, quest’ultima, che appare politicamente più agevole rispetto a quella di attivare i poteri sostitutivi del Governo ma che comporterebbe comunque un non indifferente allungamento dei tempi rispetto a quelli sui quali lo stesso proponente faceva affidamento fino a poche settimane fa. Troppo difficile una scelta tra due opzioni così radicali? Forse, ma si tratta di un’alternativa non eludibile se si vuole evitare di aggiungere nuove anomalie ad un procedimento che già ne conta diverse. E se si vuole trovare una via d’uscita onorevole per tutti gli attori della vicenda, le istituzioni coinvolte e l’intera città, evitando di trasformare la storia dello stadio a Tor di Valle anche in un caso di scuola per le facoltà di giurisprudenza.

Alberto Mencarelli è giurista e costituzionalista; le opinioni espresse dall’autore non impegnano l’amministrazione di appartenenza

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