I messaggi in codice di Matteo Orfini

Categorie: Opinioni

Quando il gioco si fa duro, Matteo Orfini comincia a non fare nomi. Il presidente del Partito Democratico, a cui si deve la condivisione delle scelte di Matteo Renzi in questi ultimi anni oltre che i prestigiosi risultati del commissariamento del partito a Roma, conosce bene quell’arte della politica da Prima Repubblica che consiste nel mandare messaggi trasversali, per lo più incomprensibili o altamente interpretabili, per rispondere alle critiche nel merito cambiando discorso. È un’arte imparata in fretta e che serve a ribattere senza ribattere, rispondere senza rispondere, dire senza dire. In una parola, è una dissimulazione.



A volte sembra quasi che qualcuno voglia utilizzare quello che è successo il 4 marzo per far tornare il Pd indietro di qualche anno, come se ci fosse un passato prossimo in cui trovare le soluzioni ai problemi dell’oggi.
Io credo piuttosto sia vero il contrario, e cioè che in quel passato ci sono le radici dei problemi che evidentemente non siamo riusciti a risolvere. E che di certo non ne usciremo tornando ad un prima, che tra l’altro non è stato nemmeno così glorioso come lo racconta qualcuno.



In questo caso Orfini sembra avercela con Walter Veltroni e il passato “nemmeno così glorioso” è quello che ha portato il Partito Democratico, all’esordio, a raggiungere percentuali del 33%, ovvero quasi il doppio di quelle del 4 marzo. Il motivo scatenante è l’intervista in cui l’ex segretario ha proposto di discutere un governo con il MoVimento 5 Stelle in caso di richiesta di Mattarella. La tecnica di lotta politica, invece, per Orfini rimane la stessa: attaccare ma senza fare nomi; giustificare ma non troppo, dissimulare per resistere e fare finta di niente, salvo festeggiare la prossima vittoria altrui accodandosi. Con l’aggressività pronta a scattare quando l’avversario sembra essere in difficoltà. Nella Prima Repubblica c’era chi chiamava questi esemplari con la locuzione di “coniglio mannaro”.

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