Quanto costa l’ideologia sull’aborto alla sanità pubblica?

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-11-17

Sprechi sanitari, servizi mediocri. Il costo dell’ideologia è altissimo. La logistica e l’organizzazione potrebbero far risparmiare moltissimi soldi. Con un’intervista a Michele Grandolfo, epidemiologo ed ex dirigente dell’Istituto Superiore della Sanità

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Non dovremmo essere tutti d’accordo sull’uso appropriato delle risorse? Sulla volontà di non sprecare soldi, soprattutto in un contesto di limitatezza delle risorse? Quali sono le soluzioni per garantire meglio i servizi sanitari e per spendere meno? Partiamo dall’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) e dall’ultima relazione ministeriale perché l’aborto è forse uno degli esempi migliori di come le ragioni ideologiche e pretestuose abbiano la meglio sulle valutazioni razionali e sulle buone pratiche sanitarie. L’altro ieri Bergoglio ha invitato i medici a compiere scelte coraggiose e controcorrente, opponendosi al «pensiero dominante», alla «‘falsa compassione’: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto» (come possa essere controcorrente una scelta adottata da più di 7 ginecologi su 10 non è chiaro). Nessuno ha parlato delle scelte delle donne e nessuno della garanzia del servizio. Un servizio garantito in modo eterogeneo e che costa molto più di quanto potrebbe. Inefficienza e sprechi economici: il peggio che si possa immaginare. Michele Grandolfo, epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità (ISS), ci spiega come si potrebbero risparmiare moltissimi soldi garantendo, al contempo, servizi migliori. «Il primo obbligo di un sistema sanitario nazionale (SSN) è quello di utilizzare le procedure che hanno una base scientifica – in questo caso le raccomandazioni internazionali dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO, Safe abortion: technical and policy guidance for health systems).

Ministero della Salute sulla 194
Anche il Ministero della Salute sulla 194 rimanda al documento WHO

 
LA RU486 E IL LIMITE A 7 SETTIMANE
L’aborto medico è, all’interno del dominio dei diritti riproduttivi e dell’interruzione di gravidanza, il caso clinico perfetto: arrivato in Italia con molto ritardo, sottoposto a regole assurde e a restrizioni che nulla avevano a che fare con la sicurezza (a Roma fino a poco fa era disponibile solo in una struttura perché la Regione Lazio aveva imposto i tre giorni di ricovero; l’Umbria ne sta discutendo). «L’aborto medico – continua Grandolfo – potrebbe essere eseguito fino a 9 settimane. Perché qui c’è il limite a 7? Pur assumendo il limite – non conforme – perché è tanto difficile che una donna possa scegliere tra questo e quello chirurgico? Una quota importante delle interruzioni di gravidanza avviene entro le 8 settimane – quanto si risparmierebbe? Almeno il 20% delle IVG si potrebbero eseguire così. Non dimentichiamo però che non c’è nessuna ragione per mantenere quel limite. Se fosse davvero per la sicurezza delle donne allora si dovrebbe tenere conto delle linee internazionali e non delle ragioni ideologiche!». L’accesso alla RU486 rimane abbastanza fantasioso in Italia.
 
Come funziona la RU486
Come funziona la RU486

 
SANITÀ PUBBLICA, EQUA DISTRIBUZIONE, CONSULTORI
La questione è ben più ampia e non riguarda certo solo l’interruzione di gravidanza, ma tutti i servizi sanitari erogati in un contesto in cui la sanità è pubblica (pagata da tutti i cittadini). «Quali principi etici devono regolare gli interventi di sanità pubblica? Chi opera professionalmente deve farlo sulla base delle migliori prove scientifiche, e l’uso delle risorse deve essere effettuato non ammettendo sprechi conseguenti a un uso inappropriato». I consultori familiari sarebbero un anello molto importante in questo meccanismo (si veda qui per la storia e le prospettive di riqualificazione). «Sono centri di counseling, ovvero avrebbero anche la possibilità di ridurre il rischio di future gravidanze. La RU486 potrebbe essere distribuita in alcuni di questi consultori: si potrebbero selezionare quelli dove, oltre agli altri servizi, una donna potrebbe scegliere di abortire senza ricorrere alla chirurgia e senza andare in ospedale». Qui potrebbe riesplodere una vecchia questione, ovvero l’obiezione di coscienza che molti fanno perfino nei consultori e perfino oggi che non si abortisce. Che succederebbe introducendo la possibilità di abortire? Il TAR di recente si è espresso sulla contraccezione d’emergenza, ma non è detto che basti. «La legge lascia margini interpretativi, ma rimane il fatto che il counseling serve per arrivare a una decisione. Il certificato previsto dalla 194 non è una autorizzazione, ma la presa d’atto dello stato di gravidanza e della decisione della donna. Perché si dovrebbe obiettare su questo?». Già, perché? Eppure si obietta, e il fatto che la legge 194 affidi alla donna la decisione e che dica che il servizio debba essere sempre garantito non basta. Sull’obiezione di coscienza riguardo la certificazione bisognerebbe aprire una discussione che comprende anche gli obiettori che eseguono indagini prenatali, nascondendosi dietro al fatto che le indagini servono solo a sapere (come la certificazione serve solo a certificare). «Se il consultorio deve certificare, dovremmo superare l’ostacolo dell’obiezione. Ricordo poi che anche gli obiettori hanno l’obbligo di trovare una soluzione e indicarla alla donna».
Tabella 28: l'obiezione di coscienza
Tabella 28: l’obiezione di coscienza

 
ANESTESIA GENERALE O LOCALE?
Un altro risparmio di risorse potrebbe venire da un uso diverso dell’anestesia. «Il 70% delle IVG potrebbe avvenire in anestesia locale. Per questa sarebbe sufficiente una struttura ambulatoriale o un presidio ospedaliero, con costi inferiori. L’anestesia generale richiede strutture di terzo livello, con camera operatoria e anestesista: un ricovero ospedaliero con un tale impegno strutturale costa moltissimo (a questo dobbiamo aggiungere moltissime analisi – spesso superflue – e l’impegno della camera operatoria). Quanto si risparmierebbe? IVG in generale vs IVG in locale: circa 150 milioni di euro l’anno». Se fossero anche solo 100 milioni, penso io. Se poi moltiplichiamo il possibile risparmio annuale per tutti gli anni che la legge è stata in vigore forse potremmo salvare non solo l’Italia ma tutta l’Europa. Se poi pensiamo alla RU486, i costi si abbatterebbero ancora di più. Ma non è solo una questione di costi: è una questione di offrire i migliori servizi. «L’inappropriatezza è stata più volte denunciata dall’ISS, fin dagli inizi degli anni 80. Simonetta Tosi ha passato gli ultimi anni della sua vita cercando di modificare questa situazione». Perché si ricorre così spesso all’anestesia generale? È una questione di fretta, di paura, di mediocrità dei servizi e dell’accoglienza? Grandolfo aggiunge una cosa importante: «Nel caso dell’anestesia locale, basta aspettare due minuti e la percezione del dolore si abbatte. E dopo è maggiore avendo fatto l’anestesia generale. Potremmo pensare al taglio cesareo: molte donne pensano “faccio l’anestesia, non sento nulla”, ma a 24 ore dal parto il dolore è maggiore rispetto a quello di un parto vaginale». Nella percezione del dolore però intervengono, come dicevo prima, molti fattori: la consapevolezza, il contesto, l’accoglienza. Insomma lo stato dei servizi. Forse siamo arrivati al perfetto cul de sac.
Tabella 24: l'anestesia
Tabella 24: l’anestesia

 
L’APPRIOPRIATEZZA
La connessione tra risparmio e migliori servizi può apparire all’inizio controintuitiva: se pago di più avrò servizi migliori, no? Più pago più ottengo, giusto? No. «Se vuoi i migliori servizi in termine di qualità della salute non è necessario, né soprattutto sufficiente, spendere più soldi, ma è doveroso (ed è meglio) operare in modo appropriato. Solo così offriremo i servizi migliori possibile e, in seconda battuta, risparmieremo. Il paradosso è: non si devono impiegare più risorse per garantire sicurezza e benessere! Ma, se non vengono usate in modo appropriate, si rischia di ottenere l’effetto contrario. Le risorse non sono usate al meglio e nessuno ne giova». I costi sono economici ma non solo. Perché un servizio mediocre può avere molti effetti negativi anche a lungo termine.
 
REGIONE LAZIO: DA DOVE COMINCIARE?
Da dove si dovrebbe cominciare in tutte le altre regioni e in qualsiasi contesto di sanità pubblica. «Per quanto riguarda l’IVG si tratta di definire l’entità del problema. L’uso appropriato, come dicevo, e dunque l’assegnazione delle responsabilità: aborto medico, anestesia locale, organizzazione. Non è nemmeno necessario che siano tutti i presidi a eseguire le IVG, ma basterebbe organizzarli bene, coordinando i distretti e le richieste. Magari per ogni centro che offre l’anestesia generale, ce ne potrebbero essere altri – come presidi ospedaliero o strutture più leggere – per l’anestesia locale. I consultori in questo avrebbero un ruolo centrale di centri logistici. Sarebbe opportuno promuovere le prenotazioni delle IVG nei consultori. Da lì si organizzano i flussi e le analisi. Lì la donna può rivolgersi senza poi andare in cerca di altre strutture». Questo potrebbe avere quindi un doppio vantaggio. Il primo è indirizzare le richieste: se il consultorio è un centro di prenotazione, sarebbe anche molto comodo. Vai lì e fai tutto lì. L’altro vantaggio sarebbe offrire la possibilità di counseling – sia su un eventuale ripensamento (oggi il ripensamento sembra essere prerogativa dei centri per la vita) sia per il futuro. Il consultorio come il cuore di una rete di servizi. «La Regione è responsabile perché nomina i direttori generali delle aziende ospedaliere e sanitarie locali – che a loro volta nominano i primari e tutti i livelli di responsabilità dei servizi. Ha i titoli (e il dovere) di assegnare e poi di verificare. Se non c’è la verifica, è evidente che non ci sia alternativa all’intervento della magistratura nei casi di interruzione di pubblico servizio o in altri casi gravi. Non si dovrebbe arrivare fi qui – che è ultima istanza, mica la prima, mica la norma!». Senza una stima dei bisogni e delle risorse (umane, strutturali, infrastrutturali) non è nemmeno possibile fare una programmazione operativa e un controllo a posteriori. «Dovrebbe essere un ciclo continuo, un processo in cui sarebbe possibile anche ridurre la corruzione e gli sprechi: se ho stabilito i costi di un servizio x, sulla base di ragionevolezza e di evidenze, non posso farlo costare dieci volte tanto. Bisogna rendere conto del rispetto di una previsione, con margini minimi di errore».
Regione Lazio
Regione Lazio

 
L’OBIEZIONE DI COSCIENZA
L’obiezione di coscienza è un perfetto esempio di scelte basate non sulle migliori pratiche mediche. Come abbiamo già detto, non potrebbe essere invocata in molte circostanze e non dovrebbe valere come una scusa per non garantire i servizi. Ma spesso l’obiezione è invocata per le ragioni più assurde. L’infermiera che «salva vite!», l’interruzione di gravidanza, le tecniche di PMA. Ma non dovremmo mai dimenticare che «chi svolge una funzione pubblica non può limitarsi a dire “sono obiettore” (ove sia consentito), ma deve garantire il servizio. Ha l’obbligo di prendere in carico la richiesta, e se lui non è disponibile deve trovarne un altro operatore sanitario». La situazione appare però fuori controllo, soprattutto in alcune regioni con il 90% di obiettori e con molti ospedali senza il reparto IVG. «È una responsabilità politica far applicare le leggi. Quella amministrativa è invece di farlo nel modo più appropriato. Quella dirigenziale, infine, è di garantire che l’intervento avvenga nei tempi e nei modi raccomandati. Il risultato dovrebbe essere la garanzia del massimo di sicurezza e benessere – con il minimo della spesa». Finché restiamo sul piano della discussione morale non sembra esserci alcuna prospettiva di miglioramento. Potrebbe forse cambiare qualcosa se cominciassimo a ragionare sul risparmio economico?

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