Quando la Serracchiani e il PD erano contro le trivellazioni

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-03-18

La brutta figura del PD sul referendum sulle trivellazioni che accusa le Regioni di voler sprecare i soldi dei contribuenti ma dimentica che quattro anni fa la vicesegretaria era in prima linea sul tema. E chi ha deciso di non fare l’election day?

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Questo referendum non s’ha da fare, scriveva ieri il Partito Democratico spiegando le ragioni a favore dell’astensione al referendum del 17 aprile sul rinnovo delle concessioni delle trivellazioni entro il limite delle 12 miglia dalla costa. Come sapete fra un mese gli italiani saranno chiamati alle urne per votare sull’unico dei sei quesiti referendari proposti dai consigli regionali di dieci regioni (alcune delle quali governate dal PD). La nota, firmata dai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani spiega che un’eventuale vittoria del Sì avrebbe come unico risultato la perdita di migliaia di posti di lavoro e che in fondo il  referendum non è altro che uno spreco di soldi pubblici. Peccato che qualche anno fa la Serracchiani la pensasse diversamente, e peccato che ad aver scelto di non fare l’election day sia stato proprio il governo guidato, indovinate un po’, dal PD. Ma ci sono anche altre cose che non tornano nel racconto del Partito Democratico.

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Foto ricordo: quando la Serracchiani e il PD scendevano in piazza contro le trivelle (2012)

Il referendum poteva essere evitato?

La storia di come si è arrivati al referendum (legittimo, nel caso vi venissero dei dubbi circa la sua illeggitimità) è la seguente: lo scorso settembre dieci regioni italiane (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) hanno chiesto l’abrogazione di un articolo dello «Sblocca Italia» e di cinque del decreto Sviluppo (questi ultimi si riferiscono alle procedure per le trivellazioni). Nota a margine: l’articolo 75 della Costituzione prevede che un referendum possa essere indetto qualora siano presentate 500.000 firme o sia richiesto da 5 consigli regionali. Le Regioni interessate hanno così presentato sei quesiti referendari per fermare la prima fase di questa modalità di estrazione. Le richieste delle Regioni e dei comitati riguardavano l’abrogazione dell’articolo 35 del decreto Sviluppo e di alcune parti dell’articolo 38 del decreto «Sblocca Italia». Il Governo però, tramite una norma inserita nella Legge di Stabilità, ha di fatto “disinnescato” cinque dei quesiti presentati dalle Regioni. A dirlo è la Corte di cassazione (questo per quanto riguarda la legittimità) che ha stabilito che l’unico referendum a rimanere valido sarà quello riguardante le attività petrolifere entro le 12 miglia dalla costa, ovvero quelle all’interno delle acque territoriali italiane. Ecco il testo del quesito referendario:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?

Il referendum poteva essere evitato? Probabilmente sì, come ha spiegato il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano su Facebook prima di proporre i sei referendum le regioni avevano cercato invano di ottenere un incontro con il sottosegretario Vicari che però decise di non essere interessato a incontrare né Emiliano né il Presidente della Basilicata Pittella:

Fu solo tale decisione a indurre molte regioni italiane governate dal Pd a richiedere il referendum sulle norme del cosiddetto Sblocca Italia che rendevano l’attività di ricerca ed estrazione petrolifera più facile e libera da qualunque intesa con le Regioni.
Fu solo a causa di questa porta inutilmente sbattuta in faccia a tante Regioni che hanno investito per anni nella tutela del mare, che i Consigli Regionali sono stati costretti a richiedere un referendum contro una legge dello Stato per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana.
Il referendum è stato chiesto su sei quesiti che intendevano abrogare altrettante norme dello Sblocca Italia che escludevano o limitavano il ruolo delle Regioni nella materia della ricerca e dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi.
Per cinque di questi quesiti referendari il Governo ha dovuto ammettere di avere commesso un errore e nella legge di stabilità ha fatto marcia indietro dando ragione alle Regioni.
Sul sesto quesito invece il Governo non è riuscito a fare la stessa cosa.

Ed in effetti è vero, il Governo è riuscito a “disinnescare” cinque dei sei quesiti referendari (ovvero ha legiferato in modo tale da renderli irrilevanti), se si va a votare è anche perché il Governo Renzi non è riuscito a mettere mano all’articolo della legge oggetto del sesto quesito referendario. Perché non lo ha fatto? Il PD non lo spiega ma difficilmente si può dare la colpa alle regioni. Il tempo c’era anche per accorpare le votazioni del referendum con quelle delle amministrative, si sarebbero potuti così risparmiare quei 300 milioni di euro (dei contribuenti!1) che secondo Serracchiani e Guerini sostengono che “potevano andare ad asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente“. Una legge per farlo c’era (presentata da SEL) ma sembra che non se ne sia fatto niente. Inoltre va rilevato che una volta presentato il referendum le regioni non avevano il potere di ritirarlo (nel senso che proprio non possono farlo eh).

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credits: ASPO Italia

Se vince il Sì ci saranno ondate di licenziamenti?

Se si potesse rispondere con una battuta si dovrebbe dire: non più di quelli che ci saranno con la riforma dell’articolo 18. Ma non siamo qui per fare cabaret quindi limitiamoci ai dati di fatto. Innanzitutto c’è da rilevare quello che scrive sempre Michele Emiliano su Facebook: “Se ritornasse in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti, il permesso di estrazione degli idrocarburi durerebbe 30 anni, prorogabili per 10 anni e poi all’infinito di 5 anni in 5 anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva”. Da questa affermazione si evince sostanzialmente una cosa, ovvero che il referendum contro le trivelle non solo non riguarda tutte le attività di trivellazione  – oltre a quelle al di là delle 12 miglia anche le concessioni all’interno delle acque territoriali che al 31 dicembre 2015 hanno chiesto il rinnovo non saranno toccate dal risultato del referendum qualora vincesse il Sì – ma nemmeno verranno immediatamente chiuse perché la legge citata da Emiliano prevede che

Al fine di completare lo sfruttamento del giacimento, decorsi “sette anni dal rilascio della proroga decennale”, al concessionario possono essere concesse, oltre alla proroga prevista dall’articolo 29 della legge 21 luglio 1967, n. 613, una o più proroghe, di cinque anni ciascuna se ha eseguito i programmi di coltivazione e di ricerca e se ha adempiuto a tutti gli obblighi derivanti dalla concessione o dalle proroghe.

Un momento, ma questo significa che una vittoria del Sì non impedirà il rinnovo delle concessioni già esistenti? Esatto. Il punto di chi è favorevole al Sì (al di là della retorica ambientalista dei NO TRIV ad ogni costo che non ha senso di esistere qui e ora) è che è preferibile effettuare una verifica ogni cinque anni che concedere una proroga a tempo indeterminato – vita natural durante del giacimento – dopo un’unica procedura di Valutazione d’Impatto Ambientale. Messa in termini terra-terra, se vince il Sì ci saranno più controlli. Se vince il No, no. Non è un referendum “contro i combustibili fossili” più di quanto lo sia “contro tutte le trivellazioni”. È un referendum sulla sicurezza delle trivellazioni e sulla possibilità di revocare una concessione in futuro. Se questa informazione non è passata e c’è parecchia disinformazione sull’argomento la colpa è da ascrivere a chi ha deciso di tenere il referendum in tempi così brevi, impedendo ai cittadini di informarsi adeguatamente e di essere informati da chi è favorevole e chi è contrario. Indovinate di chi è la responsabilità. Esatto, del Governo.  Per quanto riguarda il numero delle piattaforme interessate si tratta di 17 concessioni per l’attività estrattiva di metano (quattro delle quali hanno il permesso di estrarre anche petrolio). Entro il limite delle 12 miglia ci sono poi altre 9 concessioni per le quali però è già stata chiesta una proroga e quindi sono “salve”. Quelle 17 concessioni “a rischio” pesano ora – come spiega Dario Faccini su ASPO Italia –  per circa il 17,6% del gas e circa il 9% del petrolio prodotti. Non è quindi vero che se vincesse il Sì perderemmo il 60-70% della produzione nazionale di metano, perché il grosso dell’attività estrattiva avviene a terra (34%) o oltre il limite delle acque territoriali (36%). Ci sono poi quelli che dicono che alla fine il referendum sarà inutile perché alle compagnie petrolifere basterà fare richiesta per una nuova concessione “appena al di fuori delle 12 miglia”, qualcosa come 12,5 miglia (o 12,000001 miglia). Il punto è che aprire un nuovo impianto, chiedere una nuova concessione e rimettere in moto la produzione è un’attività particolarmente costosa, ha davvero senso farlo quando il livello della produzione del metano in quelle concessioni sta calando da parecchi anni? Tenendo conto dell’attuale situazione dei prezzi del greggio (ai minimi storici) la risposta è probabilmente no. Ma così rinunceremo alla nostra indipendenza energetica e dovremmo comprare più petrolio e gas, dicono alcuni, ebbene partiamo dal dato di fatto che importiamo già il 90% del fabbisogno di combustibili di origine fossile, la chiusura di quei pozzi (se avverrà) comporterà la perdita del 2,1% del fabbisogno di gas metano e dello 0,8% di quello di petrolio come scrive sempre Faccini. Infine un piccolo appunto a coloro che dicono che su questa materia così complessa (trivelle, pozzi, prospezioni, indagini geofisiche) non è possibile chiamare il popolo ad esprimersi tramite referendum perché quasi nessuno ha le competenze adeguate per deliberare su una materia così complessa: questo è uno dei principi cardine della democrazia rappresentativa, oppure credete che la Serracchiani abbia lavorato 20 anni su una piattaforma petrolifera?
EDIT: in molti si chiederanno cosa ci facesse la Serracchiani a Monopoli. Ebbene, l’allora eurodeputata PD manifestava contro le trivellazioni entro il limite delle 12 miglia (che è il senso del referendum) non quelle nuove però, perché le modifiche alla legge 152/2006 che vietavano NUOVE trivellazioni nelle acque territoriali sono state introdotte dall’art. 2 del Decreto Legislativo 29 giugno 2010, n. 128 e successivamente modificato dal D. Lgs. 7 luglio 2011, n. 121. Quindi prima che la VIcesegretaria PD scendesse in piazza a Monopoli. Ma no è tutto, la Serracchiani che oggi tanto si oppone alla consultazione popolare (costa troppo!!1) nel 2012 era tra i firmatari di un’interrogazione alla Commissione Europea dove si chiedeva di riesaminare urgentemente gli aspetti legislativi per vietare ricerche offshore nelle zone turistiche e a forte vocazione peschereccia  e dove veniva sottolineata:

la contrarietà di tutte le istituzioni del territorio, vista la proposta di regolamento licenziato il 27 ottobre scorso dalla Commissione europea, che prevede specifiche forme di consultazione e partecipazione pubblica alle procedure di autorizzazione, onde acquisire i pareri dei territori interessati

Proprio il parere di quei territori che per molti oggi è irrilevante perché non sufficientemente tecnico? Sì. Nell’interrogazione si chiedeva se la Commissione considerasse urgente riesaminare gli aspetti connessi alle prospezioni e all’estrazione di petrolio, nonché un riesame della legislazione pertinente per introdurre uno specifico divieto alle ricerche offshore e alle trivellazioni quando il territorio interessato fonda la sua economia su attività fortemente legate al mare, quali turismo e pesca. Qui la risposta della Commissione.

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