L'incredibile figuraccia del governo sul Jobs Act

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2015-08-27

Il governo sbaglia clamorosamente i conti ed è costretto ad ammetterlo il giorno dopo ma sulla stampa italiana ci sono solo bonari rimbrotti. L’incidente è derubricato. La questione è secondaria. Le fanfare sembrano essere pronte al bis. O alla prossima figuraccia

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Se fosse successo al governo Berlusconi di sbagliare i dati sull’occupazione dopo aver varato una legge sul lavoro probabilmente avremmo sentito gridare al golpe. Invece il ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti sbaglia clamorosamente i conti del Jobs Act ed è costretto ad ammetterlo il giorno dopo ma sulla stampa italiana si leggono solo bonari rimbrotti. Eppure, dopo quanto dichiarato dal presidente dell’Istat Giovanni Alleva dovrebbe essere chiaro che il governo sta utilizzando i dati sull’occupazione che escono dal ministero di Poletti per un’attività di propaganda persino maldestra nei suoi effetti boomerang. E se questo dal punto di vista statistico dimostra soltanto che l’ISTAT è attendibile nella comunicazione dei numeri del lavoro, dal punto di vista politico dovrebbe allarmare. Perché, senza che sia necessario pensare alla malafede, la faciloneria comunicativa e declaratoria con cui l’esecutivo sta trattando dati di importanza fondamentale nel giudizio sull’azione politica del governo dovrebbe perlomeno preoccupare chi, come Renzi, alla fine dovrà metterci la faccia e assumersi le responsabilità anche per gli errori altrui.
 
L’INCREDIBILE FIGURACCIA DEL GOVERNO SUL JOBS ACT
Vediamo cosa è successo stavolta. Nell’occasione il ministero del Lavoro si è dimenticato 1.392.196 contratti cessati. Un “errore” che gli ha permesso di fornire un numero di rapporti di lavoro stabili creati (cioè a tempo indeterminato) più che doppio rispetto a quello effettivamente registrato nei primi 7 mesi dell’anno, in confronto allo stesso periodo del 2015: non sono 630.585, ma 327.758. E, senza contare le trasformazioni di contratti a termine in indeterminati, la cifra si ferma a 117.498. L’esecutivo ha dovuto così rettificare i falsi numeri del Jobs Act e in queste tre tabelle vedete le correzioni: la prima è stata pubblicata ieri dal Sole 24 Ore ed è quella con i numeri sbagliati, la seconda è la correzione odierna del giornale di Confindustria e la tabella riportata sul sito del ministero del Lavoro; la terza è una tabella incompleta attualmente ancora sul sito.

I falsi numeri del Jobs Act


Che nei numeri qualcosa non tornasse si erano accorti ieri Repubblica e il Manifesto, che in articoli a firma di Valentina Conte e Marta Fana avevano fatto notare le discrepanze. L’articolo di Repubblica riportava anche una risposta non ufficiale del ministero riguardo la curiosa circostanza della discrepanza tra i numeri comunicati mensilmente e quelli utilizzati per la tabella riassuntiva pubblicata lunedì sul sito: per il Lavoro si trattava di rettifiche che vengono fatte periodicamente senza essere comunicate al pubblico (per ragioni ignote). Il Corriere della Sera spiega oggi che a causa dell’accaduto c’era una “certa tensione” tra il ministero del Lavoro e la presidenza del Consiglio (e ci mancherebbe…):

Ieri l’ammissione dell’errore: l’aumento c’è ma i posti di lavoro in più sono la metà, 327.758. Dov’è lo sbaglio? La prima tabella, ieri sparita dal sito del ministero, diceva che i contratti cessati sempre nello stesso periodo erano stati quasi 700 mila. Quella pubblicata ieri, invece, ne indica quasi un milione. In realtà ci sono anche altre correzioni, sulle collaborazioni, sull’apprendistato, praticamente su tutto. È vero che non cambia la valutazione generale sugli effetti del Jobs act: già nei mesi scorsi era chiaro che i posti di lavoro non stanno aumentando, quella che sta crescendo è la fetta di contratti a tempo indeterminato, o meglio a tutele crescenti e quindi senza più l’articolo 18. Ma resta il pasticcio dei numeri, un incidente che ha provocato una certa tensione tra il ministero del Lavoro e la presidenza del Consiglio.

Ma c’è di più: il ministero nella nota ieri non ha soltanto corretto i dati 2015, ma ha anche corretto i dati 2014 al ribasso: e così se il saldo sul 2014 era -137mila, quest’anno il numero arriva a +117mila. A causa di questo, racconta sempre il quotidiano, è saltata in Consiglio dei Ministri l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, che presentavano anche un altro problema sui controlli a distanza:  «nella prima versione del provvedimento le telecamere potevano essere usate non solo per garantire la sicurezza degli impianti e per evitare furti. Ma anche come base per i provvedimenti disciplinari, licenziamento compreso. Nel passaggio in Parlamento per i pareri, però, la commissione Lavoro della Camera ha chiesto di eliminare questa seconda possibilità. Il parere non è vincolante ma la materia è delicata».

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Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi

NUMERI & PROPAGANDA
Eppure l’accaduto non sembra aver fatto perdere il sonno o stimolato indignazione. Il Corriere riporta la notizia sull’autocorrezione del ministero senza segnalare gli articoli della concorrenza che la sollecitavano come è costume nella stampa italiana, ma non commenta in alcun modo i fatti (edit: c’è invece un commento di Antonella Baccaro a pagina 32) . Il Sole 24 Ore parla in un commento a pagina 16 richiamato in prima di troppa confusione sui dati del lavoro, chiudendo sbrigativamente la questione al grido di Tutto il potere all’ISTAT:

II lavoro è un tema delicatissimo e c’è grande attesa di leggere finalmente dati positivi. Sarebbe il segno della vera uscita dalla crisi. Ma l’ansia di raggiungere (e comunicare) risultati, non può prescindere dalla correttezza e dall’esattezza dell’informazione data. L’ennesima “rettifica” ieri da parte del ministero del Lavoro non aiuta, anche perchè stavolta la “svista” è ragguardevole: sono sparite circa 300mila cessazioni di contratti a tempo indeterminato. Il saldo dei nuovi rapporti stabili nei primi sette mesi dell’anno resta con il segno più, ma è di entità ben più contenuta.
Certo, la pubblicazione mensile delle comunicazioni obbligatorie lascia spazio a “revisioni” successive, come accade anche per altri dati sul lavoro resi, con medesime cadenze temporali, da Istat e Inps. Il punto è proprio questo: le fonti di informazioni sull’occupazione sono troppe e tutte fotografano solo “una parte” del fenomeno, creando alla fine soltanto una grande confusione. La comunicazione periodica è importante ed è la bussola su cui orientare le scelte di politica economica. Il Sole 24 Ore lo ha chiesto da tempo: vanno unificate le fonti, ne guadagnerà la precisione. Lasciare chesia solol’Istat afarele rilevazioni forse aiuterà a contenere anche “le rettifiche”.

Repubblica riporta le correzioni e segnala anche quelle del 2014, senza però spingere troppo sulla questione. Sulla stampa italiana l’incidente è derubricato. La questione è secondaria. Le fanfare sembrano essere pronte al bis. O alla prossima figuraccia.

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