La vita senza cibi lavorati? Non ha molto senso

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-05-09

Quando leggiamo gli allarmi sui rischi dei cibi lavorati ci viene in mente subito il junk food: merendine e prodotti pieni di conservanti. Ma la prima lavorazione del cibo è stata il taglio degli alimenti. Significa che dobbiamo tornare a mangiare cosce di brontosauro intere? No.

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Cosa significa mangiare cibo confezionato ed in un certo senso privato di alcun sue caratteristiche fondamentali dalle più basilari attività di manipolazione degli alimenti quali ad esempio la cottura o la riduzione delle dimensioni tramite il taglio e la riduzione in piccoli pezzi? Il Washington Post ha pubblicato una lettura dello studio di Katherine D. Zink e Daniel E. Lieberman dal titolo Impact of meat and Lower Palaeolithic food processing techniques on chewing in humans che non aggiunge molto di nuovo a quello che già intuitivamente ognuno di noi sa riguardo al rapporto dell’essere umano con il cibo ma che – in ragione della crescente popolarità di certe diete crudiste – continua ad avere un certo valore di attualità.

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Campioni visti al microscopio del diverso livello di masticazione al quale devono essere sottoposti i cibi (sia vegetali che animali) quando vengono mangiati crudi, tagliati a fette, sminuzzati o cotti

L’invenzione della lavorazione degli alimenti

C’è stato un tempo in cui, come impariamo più o meno tutti dalle elementari, l’essere umano consumava i cibi senza lavorarli. Questo significa senza cuocerli ma anche senza sminuzzarli per ridurli in parti più piccole. Tre milioni di anni fa (circa) l’unico modo conosciuto per “lavorare” gli alimenti era la masticazione. E quando parliamo di lavorazione ovviamente facciamo anche riferimento all’energia consumata dai nostri progenitori per poter frantumare il cibo. Lavoro che – in termini di consumo di energia – poteva essere molto dispendioso e richiedere parecchio tempo. Se ne sono resi conto i partecipanti all’esperimento di Zink e Lieberman che hanno dovuto masticare un pezzo di carne di capra crudo e scoprire che l’esperienza era più simile a quella di masticare una gomma da masticare che il classico boccone di carne. Le cose cambiano notevolmente quando la carne cruda viene ridotta in piccoli pezzi, più facili da masticare e ingerire. Benvenuti nell’età della pietra e degli strumenti per tagliare la carne (ma anche le verdure). Per l’arrivo della cottura bisognerà invece avere ancora po’ di pazienza visto che è stata scoperta poco più di 500 mila anni fa. Ma che effetti ha avuto la scoperta di nuove tecniche per rendere i cibi più commestibili e digeribili? In primo luogo una diminuzione della muscolatura delle mandibole che pare sia la causa di numerosi problemi dentali. Essendo le mandibole sottoposte ad un minore carico di lavoro anche le ossa dell’apparato masticatorio vengono meno sollecitate rispetto a quelle dei nostri progenitori. L’aspetto positivo è invece che, dal momento che buona parte del lavoro che prima si faceva all’interno della bocca è stato trasferito all’esterno: sminuzzatura e varie forme di cottura e raffinazione dei cibi abbiamo molto più tempo per svolgere altre attività. L’uomo moderno – rispetto al suo antenato primitivo – infatti non deve “perdere” gran parte della giornata a masticare e digerire il cibo perché l’ingestione dei cibi (e quindi delle calorie) è divenuta più semplice. Ma anche questo vantaggio “evolutivo” ha i suoi aspetti negativi: a parità di quantità il cibo lavorato sazia meno, quindi la tendenza è quella di introdurne nell’organismo quantità maggiori il che contribuisce – ma non è l’unica causa –  ai ben noti problemi di obesità della società contemporanea.
 

Cosa significa davvero lo studio sulla dieta dell’uomo preistorico?

La ricerca di Zink e Lieberman si ferma qui, ma il problema relativo ai cibi eccessivamente lavorati è un altro: ovvero la quantità di additivi e conservanti che vengono introdotti negli alimenti duranti i processi di lavorazione industriale. Non stiamo però più parlando dell’invenzione delle tecniche di elaborazione dei cibi (alcune delle quali sono diventate parte integrante della tradizione culinaria di certe culture) ma delle modalità con cui l’industria alimentare “lavora” il cibo che poi mangiamo. Non ci sono solo la cottura, la fermentazione, la stagionatura, il congelamento o l’inscatolamento dei cibi. C’è a questo punto un evidente problema di definizione: per Zink e Lieberman con “processed food” si intende qualsiasi alimento che sia stato lavorato anche in misura minima. Per coloro che invece denunciano i rischi dei “processed food” invece stiamo parlando di highly processed food  ovvero di quei procedimenti che non solo rendono il cibo radicalmente diverso dalla materia prima di provenienza (di origine animale o vegetale) ma che in qualche modo estraggono – eliminandoli – buona parte dei nutrienti e dei componenti salutari degli alimenti.  A meno di non fare una scelta crudista non è possibile (e probabilmente non avrebbe senso) quindi evitare di ingerire processed food, ma come in ogni caso ci sono cibi lavorati in modo “buono” e cibi lavorati in modo “cattivo”. Quello che lo studio di Lieberman rivela è che anche una minima attività di lavorazione altera il nostro rapporto con il cibo, ma questo non significa che dobbiamo mangiare solo cibi crudi. Lo studio non è quindi un inno al crudismo più estremo (anche perché anche i crudisti lavorano il cibo in qualche modo) o a diete paleolitiche come si potrebbe pensare ad una prima superficiale lettura. Sarebbe come percorrere a ritroso la strada dell’evoluzione dell’umanità. Un’alternativa difficilmente percorribile che avrebbe più effetti negativi (ad esempio in termini di tempo) che positivi. Senza contare che la cucina e la lavorazione dei cibi ha acquisito un valore che va al di là della semplice nutrizione. È la scoperta di qualcosa di ulteriore rispetto alla cottura: il gusto e il piacere del cibo. Quello su cui lo studio invece ci può invitare a far riflettere (oltre all’inconsistenza della definizione di “processed food”) è che dobbiamo prestare maggiore attenzione alla quantità e alla qualità degli alimenti che ingeriamo. Il che è probabilmente un concetto banale ma in un’epoca di continui allarmi “scientifici” sulla pericolosità del cibo per la salute umana non costituisce altro che la richiesta per l’introduzione di nuove e più aggiornate forme di educazione alimentare.

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