Gentiloni, il governo fotocopia che non piace a Repubblica

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-12-13

Il giudizio negativo del quotidiano che aveva appoggiato l’esecutivo Renzi: «Troppo facile e troppo poco»

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Tra le reazioni dei giornali al varo ufficiale del governo Gentiloni spicca l’ostilità piena di un giornale che aveva appoggiato (in alcuni momenti addirittura senza se e senza ma) l’esecutivo Renzi: Repubblica oggi usa addirittura le parole dell’ex arcinemico Denis Verdini per definire «governo fotocopia» quello che ha giurato ieri. Ieri in un fondo anonimo e quindi riconducibile alla direzione il quotidiano aveva chiesto un passo indietro (mai arrivato) a Maria Elena Boschi.

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La prima pagina di Repubblica sul governo Gentiloni

Oggi il direttore Mario Calabresi ci va giù pesante in prima pagina:

Matteo Renzi ha fatto gli scatoloni, ha scritto la sua lettera d’addio al governo nel cuore della notte e promesso di dedicarsi solo al Pd. Sembrava un nuovo inizio. Poi sono arrivati i dettagli, quelli in cui è solito nascondersi il diavolo: Maria Elena Boschi, la madre della riforma costituzionale bocciata dagli italiani, anziché fare un doveroso passo indietro ha chiesto e ottenuto una promozione. Per farle posto si sono resuscitati due vecchi ministeri, uno per il fedelissimo Lotti l’altro per De Vincenti. Angelino Alfano si è spostato alla Farnesina, un passaggio incomprensibile in una fase così delicata dato che non si conoscono sue competenze in politica estera.
Come non pensare ad una mossa dettata dalla voglia di allargare il curriculum? O dalla necessità di allontanarsi dalla patata bollente dell’immigrazione? Ma non era meglio restare e rivendicare il lavoro fatto? Scelte evitabili che rafforzano diffidenze, gonfiano il qualunquismo e lasciano un retrogusto di furbizia e immaturità. A pagare gli errori del passato la sola ministra Giannini, senza che il governo abbia mai fatto un minimo di autocritica sulla riforma della scuola. Troppo facile e troppo poco.

E Stefano Folli conferma il concetto:

È in una certa misura, o almeno dovrebbe essere, una sorta di “governo del presidente” che si appoggia da un lato al Parlamento e dall’altro al Quirinale. Al punto che si poteva immaginare che l’influenza del Colle riuscisse a favorire la nascita di un esecutivo dal profilo più alto e soprattutto più innovativo. Così non è stato e il calcolo di Gentiloni è oggi quello di non approfondire il solco con Largo del Nazareno. Dove in effetti Renzi agisce come se il referendum avesse regalato al Pd un successo da coltivare con cura. L’idea, un filo paradossale, è che il 41 per cento del Sì costituisce un patrimonio del Pd e del suo leader.
Quindi il problema è quello di non disperdere quei voti e di metterli nell’urna delle prossime politiche. Il che spiega anche perché nessun esponente del No sia stato invitato a entrare nel governo semi-fotocopia. Si capisce che il cammino di Gentiloni è impervio, forse più di quanto egli stesso immaginasse. Tuttavia il futuro è ancora da scrivere. Il nodo della legge elettorale resta cruciale e qui i toni misurati e concilianti del presidente del Consiglio, che non vuole invadere lo spazio del Parlamento, permetteranno — si spera — alle parti politiche di avviare un negoziato serio. Non saranno le “larghe intese”, ma è chiaro che la legge avrà bisogno del concorso di Berlusconi. Il che apre scenari non del tutto prevedibili.

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Anche La Stampa (stesso editore) è molto critica e, con Massimo Gramellini, addirittura sprezzante:

La buona notizia è che finalmente Alfano sgombera gli Interni. Quella cattiva è che invade gli Esteri, grazie alla sua preparazione in storia e geografia del Kazakistan maturata nella vicenda Shalabayeva. Anche Galletti resta all’Ambiente (è l’Ambiente che vorrebbe andarsene). E Poletti non molla l’osso del Lavoro, malgrado una sua legge dal nome inglese che gli inglesi hanno dovuto tradurre – in inglese Jobs Act non significa nulla – sia costata al governo RcR (Renzi con Renzi) l’ammutinamento elettorale dei giovani. Tutti sconfitti e tutti confermati, tanto che non si è trovato neppure uno strapuntino per l’offesissimo Verdini. Tutti tranne la signora preside Giannini alla Pubblica Distruzione. Il disastro del referendum è da considerarsi solo colpa sua. Lo storico voto sulle riforme istituzionali viene così definitivamente archiviato alla voce: congiura di bidelli.

Leggi sull’argomento: Dramma nella pubblicistica italiana: quale nomignolo per Gentiloni?

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