Erdogan e i rischi di una dittatura senza nemici

di Tommaso Giancarli

Pubblicato il 2016-07-21

L’autoritarismo islamico di Erdogan è stato reso possibile dall’appoggio (consapevole?) degli elettori, che hanno demolito negli anni il quadro sostanzialmente autoritario ma laico della Turchia kemalista. La laicità fittizia di un paese monoconfessionale e ufficialmente monoetnico, costruito su un genocidio negato. Spazzando via una delle parti, nascerà un sistema senza differenze tra Stato e Partito. Ma una dittatura senza nemici porta con sé rischi gravissimi

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A lungo la situazione in Turchia è stata un intreccio complesso di autoritarismo e democrazia, laicismo e islamismo; con, per farla breve, la seconda, ossia la democrazia, che è stata utilizzata dall’ultimo contro il primo ma anche contro il terzo, allo scopo (probabilmente) di distruggere poi la stessa democrazia, vista come uno strumento che non aveva più senso mantenere dopo che fosse servita a instaurare un nuovo autoritarismo… Non avete capito? Eppure è abbastanza semplice.

Il rischio della democrazia autoritaria

Seriamente: Erdogan è non da oggi un governante di tendenze autoritarie; e non da oggi si possono intravedere nelle file e nell’ideologia del suo partito, che è ufficialmente un movimento conservatore di ispirazione islamica, quei tratti islamisti rintracciabili in altri luoghi nei Fratelli Musulmani e in altre fazioni che hanno ovunque il chiaro obiettivo di costruire regimi basati sulla legge coranica, e non certo sulla democrazia, tantomeno quella di stampo “occidentale”. E tuttavia Erdogan ha costruito e allargato il proprio potere con la democrazia, intesa nel senso dell’appoggio convinto e ripetuto di parti notevoli e a volte maggioritarie dell’elettorato. Questo mandato popolare è quello che gli ha consentito in un certo senso, paradossale ma vero, di fare della Turchia una democrazia parlamentare vera, dopo che per decenni la politica era stata svuotata di senso e ridotta a docile esecutrice degli ordini dei militari che erano di fatto i padroni del paese. Ossia, in altri termini: l’autoritarismo islamico cui probabilmente tende Erdogan è stato reso possibile dall’appoggio (consapevole?) degli elettori, che hanno demolito negli anni il quadro sostanzialmente autoritario ma laico della Turchia kemalista.
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Ed è vero poi che i militari rispettavano e idolatravano la laicità e una certa europeizzazione; ma è vero anche che quella laicità era la laicità fittizia di un paese monoconfessionale e ufficialmente monoetnico, costruito su un genocidio negato e su diversi altri massacri, nonché sulla pluridecennale e sanguinosissima guerra ai curdi e a qualsiasi movimento di sinistra. Mentre l’islamico Erdogan è stato il primo a riconoscere che esistono turchi di altre religioni e perfino di altre etnie rispetto alla dominante turanica. In sostanza la sfida è stata a lungo fra una democrazia di comodo, che tendeva a un autoritarismo islamico, e una democrazia di facciata, che copriva un autoritarismo nazionalista.

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La grande purga di Erdogan (Corriere della Sera, 21 luglio 2016)

Una democrazia di facciata 

Oggi questa situazione di enorme complessità, e di sostanziale pareggio fra pregi e difetti dei due (anche qui, semplificando: le fazioni sono ben più numerose) attori sulla piazza, sembra essersi sciolta. La Turchia, fallito il colpo di stato dei militari che avrebbero dovuto rimpiazzarlo evitando le urne – in cui il Sultano sembra imbattibile – pare avviata verso l’autoritarismo islamista di Erdogan. E in effetti non si capisce bene, ragionando un po’ sulla cosa, come il golpe sarebbe dovuto riuscire, su chi avrebbe dovuto appoggiarsi: se non potevano certo aspettarsi l’adesione dei milioni di conservatori rurali e non solo che hanno sempre votato Erdogan, chi avrebbe dovuto scendere in strada ad acclamare i militari, se non proprio ad affiancarli nelle battaglie di strada? I curdi, definiti per legge “turchi di montagna” dalla Repubblica laica, massacrati per decenni da quello stesso esercito e ancora oggi presi di mira da “operazioni di polizia” che fanno migliaia di morti? Le classi lavoratrici urbane, i cui movimenti progressisti sono stati soffocati nel sangue per tutto il secondo Novecento da quegli zelanti alleati della Nato? A occhio non rimaneva molta gente su cui contare; e infatti non si è presentato nessuno. I soldati di uno dei più temibili eserciti del mondo sono allora rimasti soli, impotenti, isolati dalla popolazione che avrebbero dovuto salvare dalla tirannide. E sono stati sconfitti, arrestati, a volte linciati, da militanti islamisti fanatici ma pressoché disarmati, che comunque erano più forti di loro. Erdogan, dunque, ha buon gioco nel plasmare adesso tutta la macchina statale a propria immagine: vengono rimossi non solo i militari – molti di più di quelli effettivamente coinvolti nel golpe, o perlomeno di quelli usciti dalle caserme -, ma anche i giudici, i professori e gli insegnanti, i rettori. Non c’è più, per motivi evidenti, nessuna resistenza: nulla resta sul cammino tra Erdogan e uno stato totalmente erdoganizzato.

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Il presidente Erdogan compare alla CNN turca

Ma qui entra in gioco quella che potremmo chiamare la variabile fascista, riferendoci non alla vaga definizione di fascismo vista in tutto il Novecento in varissime parti del mondo, ma alla precisa realtà del regime mussoliniano: uno stato autoritario, o comunque più docile e controllabile, o anche solo più obbediente, non è per forza di cose uno stato più efficiente e più forte. Anzi. E uno stato meno forte e meno efficiente potrebbe ricreare di nuovo i fallimenti in serie, soprattutto in politica estera, che hanno messo Erdogan nella condizione, secondo i suoi nemici, di dover essere rimosso. Solo che a quel punto non ci saranno più nemici e nessuno cui affibbiare colpe e contro cui aizzare la folla dei fanatici. La possibile reazione di sopravvivenza deriverà da un sistema in cui non c’è più differenza tra Stato e Partito, del tutto erdoganizzato, e dunque potrà svolgersi solo in due modi: se il sistema resta fedele al proprio creatore, cade con esso; se sceglie la sopravvivenza, lo rimuove. In questo senso non avere nemici politici in grado di manovrare o anche solo complottare è un rischio grave, in termini politici; senza contare il rischio sociale determinato dal licenziare in massa decine di migliaia di persone che potrebbero aver sviluppato, nel proprio piccolo, qualche leva di potere e qualche feudo. È possibile allora che sia proprio la paura di correre troppo, e di distruggere la macchina statale, a dover consigliare prudenza al Sultano trionfante, tentato di distruggere per sempre i traditori e i potenziali nemici. Non è detto, certamente, che questa prudenza basti a fermarlo; di sicuro non ci sono altri grossi ostacoli, e già i prossimi mesi ci diranno con chiarezza quale sarà la sua decisione.

Leggi sull’argomento: Il genocidio degli armeni, in sintesi

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