Chi c'è dietro l'attacco al museo del Bardo a Tunisi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2015-03-19

Le tracce dei due attentatori portano all’Iraq. Ma il modus operandi è simile a quello di Parigi e Copenhagen. E l’obiettivo non è stato scelto a caso. Perché l’Occidente dovrebbe aiutare Tunisi. Prima che sia troppo tardi

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La Tunisia non è la Libia. Il paese che cacciò Ben Alì e diede inizio alla stagione della Primavera Araba e che aveva deciso, con libere elezioni, di far vincere il partito laico. Proprio per questo ai suoi confini con l’Algeria aveva dovuto schierare l’esercito contro le bande salafite. E per questo i suoi leader politici morivano in attentati. Ma da Tunisi era anche partito un gran numero di foreign fighters pronti ad andare a combattere in Siria, e l’estremizzazione era in agguato. Ora si partirà dalle indagini sugli attentatori per scoprire se è stata l’ISIS a colpire e in che modo è stato organizzato l’attacco al Parlamento poi trasformatosi in attacco al museo del Bardo, che ha fatto 21 vittime tra cui 4 italiani.
museo del bardo tunisi
CHI C’È DIETRO L’ATTACCO A TUNISI
Jabeur Khachnaoui e Yassine Laabidi sono morti nella battaglia, mistero sui loro complici. Il primo, originario di Kasserine, era scomparso da tre mesi e aveva contattato la sua famiglia usando una sim irachena. Un piccolo indizio in un massacro realizzato secondo un modus operandi classico: gli occidentali come bersaglio, il simbolo del Parlamento, la presa d’ostaggi nel museo del Bardo. Spiega oggi Guido Olimpio sul Corriere:

C’è chi accusa Ansar al Sharia mentre un’ipotesi investigativa conduce a Obka bin Nafi, fazione legata ad Al Qaeda nella terra del Maghreb e che ha firmato molti attacchi partendo dai suoi rifugi sul Jebel Chambi,area di Kasserine, nell’ovest della Tunisia. Ha i mezzi, esperienza ed è determinata. In un messaggio sul web, l’emiro qaedista, Wennas Al-Faqeeh, ha annunciato un’offensiva in un Paese dove «si è diffusa la corruzione, la perdizione, la povertà». Però non è chiaro se abbia cercato di inserirsi nella storia o sia, invece, una rivendicazione indiretta.
Interessante che abbia usato la parola gazwat, un termine al plurale per ricordare le scorrerie sotto la guida del Profeta. Proclama seguito da informazioni sulla presenza ad Ariana di «uomini che hanno partecipato all’operazione benedetta». Toni che ricordano il progetto di prendere di mira i turisti italiani, piano elaborato da Ansar, movimento dove sono confluiti alcuni estremisti tunisini che hanno trascorso lunghi periodi di detenzione in Italia e hanno ritrovato spazio con la primavera araba. C’era qualcuno di loro nella squadra d’assalto? Non sarebbe una sorpresa.

A settembre, la polizia ha neutralizzato una colonna che voleva eliminare l ’ambasciatore Usa con un’esplosione. Sarebbe stato un attacco ad effetto, ma non come quello che hanno scatenato i kamikaze di ieri. L’ISIS ha rivendicato la mattanza. 400 sono i foreign fighters ritornati negli ultimi tempi dalla Siria: la scheda iraqena farebbe pensare che tra questi c’era anche Jabeur, morto ieri nell’assalto. Il jihadista tunisino più ricercato nelsuo Paese, Abu Zakariya al Tunisi, è morto a Sirte lunedì scorso in combattimento. Incassata l’alleanza dei gruppi jihadisti in Libia e Nigeria, il capo dell’Is Al Baghdadi punta su Tunisi come prossima tappa nella strategia d’espansione dell’Is attraverso l’Africa.

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La dinamica dell’attacco al museo del Bardo (Repubblica, 19 marzo 2015)

L’ELOGIO DEL CALIFFO
Di certo la rivendicazione conta. Racconta oggi Repubblica:

Che il retroterra dei due terroristi di Tunisi fosse in quella galassia jihadista che, oltre a espandersi in tutto il Nordafrica, ha fatto della Tunisia uno dei maggiori fornitori di combattenti votati al martirio in Siria ed Iraq, è apparso chiaro sin dall’inizio. Se mai ce ne fosse stato bisogno è stato lo Stato Islamico, l’organizzazione che si ripromette di riportare il mondo musulmano ai tempi e agli usi del Califfato del Settimo Secolo, a confermare i sospetti iniziali, elogiando i due“martiri”, plaudendo all’attacco e invitando i tunisini a seguire l’esempio “dei loro fratelli”.

Una minaccia peggiore non si può immaginare per il paese che, dopo avere dato il via alla Primavera araba, aveva saputo avviarsi sulla nuova strada della democraziap arlamentare e delle libertà fondamentali. Ma, nonostante i risultati ottenuti sul piano politico,oggi la Tunisia appare stretta dalla tenaglia delle bande islamiste che operano ai confini con la Libia e l’Algeria, e corrosa al suo interno dalla presenza di gruppi radicali pronti a sovvertire il nuovo ordine faticosamente conquistato.

Ed è proprio questo il problema. Il modus operandi della Tunisia è molto simile a quello che abbiamo visto all’opera in Europa. Cittadini francesi o danesi che hanno legami stretti con il mondo islamico e che a un certo punto decidono di attivarsi come cellula terroristica, forse addirittura all’insaputa di chi all’estero li ha seguiti o aiutati. Organizzano attentati semplici, dagli scarsi costi e senza nessuna particolare forma di organizzazione (non devono, insomma, imparare a portare un aereo come nell’11 settembre). Poi muoiono come “martiri” mentre arriva la rivendicazione dall’estero. Potenzialmente è impossibile prevederne le mosse e difendere gli obiettivi che potrebbero essere scelti. Un terrore insondabile. Ma proprio per questo l’Occidente deve aiutare paesi come la Tunisia, che hanno affrontato e stanno affrontando un lungo percorso di laicità e da quello devono essere aiutati a non deviare. Perché l’ipotesi alternativa, ovvero lasciare campo aperto all’ISIS, quella sì che rischierebbe di mettere ancora più in pericolo l’Occidente.

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