Tutte le bufale sul referendum del 17 aprile

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-04-15

Referendum in Italia fa rima con disinformazione, e siccome quest’anno di tempo ce n’è stato davvero poco di mistificazioni (da una parte e dall’altra) ce ne sono state davvero tante. Da quelli che dicono di voler fermare le trivelle fino al deputato della Repubblica che invita a votare No per salvare i Marò. Vediamo qualche domanda e qualche risposta su referendum e trivellazioni. Per votare meno disinformati

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Il referendum è quella cosa talmente strana – per i comuni mortali – che ogni volta che se ne tiene uno non è possibile nemmeno sapere per cosa si stia votando. E la colpa non è solo di coloro che vogliono che il referendum fallisca o che non venga raggiunto il quorum. Le responsabilità della cattiva informazione sui referendum sono generalmente equamente condivise tra il comitato promotore e il fronte del no/astensione. Il referendum del 17 aprile sulle trivelle e le trivellazioni non fa, ovviamente, eccezione.
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No, non è un referendum per fermare le trivelle

La storia di questo referendum è assai simile, per come si sta dipanando a quanto venne detto all’epoca del cosiddetto referendum sull’acqua pubblica. Referendum che non ha mai messo in discussione la privatizzazione dell’acqua (che era ed è rimasta un bene pubblico) ma le modalità di affidamento del servizio ed eventualmente la privatizzazione (completa o in parte) delle società che gestiscono il servizio. La prima nota stonata l’ha emessa il comitato NO TRIV che da subito ha pubblicizzato il referendum spiegando che andando a votare Sì avremmo eliminato le trivelle dai mari italiani. Hurrà! E invece non è così, sostanzialmente per due ragioni racchiuse – guarda te le coincidenze – nel testo del quesito referendario, che è il seguente:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?

Il quesito referendario non propone di vietare le trivellazioni in mare al largo delle nostre coste ma riguarda solo la modalità di rinnovo delle concessioni entro il limite delle 12 miglia. Questo significa che già ora in Italia è vietato trivellare nuovi pozzi entro il limite delle acque territoriale. Di fatto quindi le trivelle – in senso stretto – sono già ferme dal 2011, è consentito invece continuare a sfruttare quei giacimenti sui quali insiste una piattaforma per l’attività estrattiva. Nuove concessioni potranno in ogni caso essere assegnate al di fuori del limite delle acque territoriali, ma non solo: tutte quelle piattaforme che, pur trovandosi all’interno del limite delle 12 miglia dalla costa, hanno fatto richiesta di rinnovo entro dicembre 2015. Cosa c’è in ballo quindi? Sostanzialmente, ed è sufficiente leggere il testo del quesito referendario, si tratta di abrogare quel passaggio della legge che attualmente consente la proroga sine die per le attività di estrazione di idrocarburi già esistenti entro il limite delle dodici miglia dalla costa. Si tratta di quanto stabilito dalla legge 208 del 28 dicembre 2015 (ovvero dalla Legge di Stabilità 2016) che è andata a sostituire un articolo del Testo Unico per l’Ambiente, di fatto quindi il referendum chiede di intervenire per modificare un comma di una legge del 2006 che recepiva quanto disposto dalla legge numero 9 del 9 gennaio 1991 (in particolare gli articoli 4, 6, e 9). Ma quali sono gli impianti che potrebbero essere interessati dall’esito del referendum qualora vincesse il sì? Ce lo dice questa infografica del Corriere della Sera

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Referendum 17 aprile: dove sono le trivelle (15 aprile 2016)

Gli impianti per le trivellazioni in mare sono 69 in tutta Italia di cui 25 funzioneranno anche in caso di vittoria del sì e 44 sono invece interessati dal referendum. Di queste 69 totali, le otto in Veneto sono sospese, delle 31 in Emilia Romagna ne sono in funzione 28, delle 14 nelle Marche sono produttive in nove, delle cinque in abruzzo sono produttive in quattro; seguono Molise e Puglia dove ce n’è una che è produttiva (ma in Puglia, attenzione, quella produttiva si trova al di là delle 12 miglia e non è quindi oggetto di referendum); chiudono la Calabria (cinque installate, tre produttive) e Sicilia (quattro installate, tre produttive). Abbiamo quindi delle trivelle che non saranno chiuse perché il referendum non riguarda gli impianti oltre le 12 miglia. Ci sono infine quelle all’interno delle acque territoriali italiane, per alcune di loro il referendum non avrà alcun effetto, si tratta di quelle per le quali i concessionari hanno già fatto richiesta di rinnovo della concessione secondo la legge che si vorrebbe modificare (e non abrogare). E le altre?
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Fonte: Il Sole 24 Ore via Twitter.com

Se vince il Sì ci saranno ondate di licenziamenti?

Cercando di capire quale sarà la sorte delle trivelle entro le 12 miglia, in caso di vittoria del Sì, ecco che si arriva quindi ad una delle bufale dei sostenitori del No e dell’astensione. Innanzitutto c’è da rilevare quello che ha scritto Michele Emiliano su Facebook qualche settimana fa: “Se ritornasse in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti, il permesso di estrazione degli idrocarburi durerebbe 30 anni, prorogabili per 10 anni e poi all’infinito di 5 anni in 5 anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva”. Da questa affermazione si evince sostanzialmente una cosa, ovvero che il referendum contro le trivelle non solo non riguarda tutte le attività di trivellazione  – oltre a quelle al di là delle 12 miglia anche le concessioni all’interno delle acque territoriali che al 31 dicembre 2015 hanno chiesto il rinnovo non saranno toccate dal risultato del referendum qualora vincesse il Sì – ma nemmeno verranno immediatamente chiuse perché la legge citata da Emiliano prevede che

Al fine di completare lo sfruttamento del giacimento, decorsi “sette anni dal rilascio della proroga decennale”, al concessionario possono essere concesse, oltre alla proroga prevista dall’articolo 29 della legge 21 luglio 1967, n. 613, una o più proroghe, di cinque anni ciascuna se ha eseguito i programmi di coltivazione e di ricerca e se ha adempiuto a tutti gli obblighi derivanti dalla concessione o dalle proroghe.

Un momento, ma questo significa che una vittoria del Sì non impedirà il rinnovo delle concessioni già esistenti? Esatto. Il punto di chi è favorevole al Sì (al di là della retorica ambientalista dei NO TRIV ad ogni costo che non ha senso di esistere qui e ora) è che è preferibile effettuare una verifica ogni cinque anni che concedere una proroga a tempo indeterminato – vita natural durante del giacimento – dopo un’unica procedura di Valutazione d’Impatto Ambientale. Non sembra quindi realistico che – a causa della vittoria del Sì – coloro che lavorano sulle piattaforme entro le 12 miglia potranno essere licenziati in tronco, perché i concessionari potranno in ogni caso chiedere un rinnovo della concessione ogni cinque anni alla scadenza della seconda proroga (qualora l’abbiano già richiesta).

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credits: ASPO Italia

Votare Sì costringerà il governo a investire sulle rinnovabili?

Non è vero, e non solo perché il referendum non riguarda per niente le rinnovabili ma anche perché la quota di produzione che eventualmente potrebbe andare persa (qualora non venissero rinnovate le concessioni) è irrilevante dal punto di vista dell’approvvigionamento di combustibili fossili da parte del nostro paese. Di conseguenza è scorretto dire, anche se è divertente per fare le battute su Facebook, che chi vota Sì è contro il petrolio e dovrebbe fare a meno di utilizzare l’auto a benzina (o a metano). Guardiamo quindi il numero delle concessioni che sarebbero eventualmente interessate: si tratta di 17 concessioni per l’attività estrattiva di metano (quattro delle quali hanno il permesso di estrarre anche petrolio). Entro il limite delle 12 miglia ci sono poi altre 9 concessioni per le quali però è già stata chiesta una proroga e quindi sono “salve”. Quelle 17 concessioni “a rischio” pesano ora – come spiega Dario Faccini su ASPO Italia –  per circa il 17,6% del gas e circa il 9% del petrolio prodotti. Non è quindi vero che se vincesse il Sì perderemmo il 60-70% della produzione nazionale di metano, perché il grosso dell’attività estrattiva avviene a terra (34%) o oltre il limite delle acque territoriali (36%). Ci sono poi quelli che dicono che alla fine il referendum sarà inutile perché alle compagnie petrolifere basterà fare richiesta per una nuova concessione “appena al di fuori delle 12 miglia”, qualcosa come 12,5 miglia (o 12,000001 miglia). Il punto è che aprire un nuovo impianto, chiedere una nuova concessione e rimettere in moto la produzione è un’attività particolarmente costosa, ha davvero senso farlo quando il livello della produzione del metano in quelle concessioni sta calando da parecchi anni? Tenendo conto dell’attuale situazione dei prezzi del greggio (ai minimi storici) la risposta è probabilmente no. Ma così rinunceremo alla nostra indipendenza energetica e dovremmo comprare più petrolio e gas, dicono alcuni, ebbene partiamo dal dato di fatto che importiamo già il 90% del fabbisogno di combustibili di origine fossile, la chiusura di quei pozzi (se avverrà) comporterà la perdita del 2,1% del fabbisogno di gas metano e dello 0,8% di quello di petrolio come scrive sempre Faccini.
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Se vince il Sì l’Italia dice addio ai soldi delle concessioni?

L’argomento di alcuni Ottimisti e Razionali è che l’estrazione di gas e di petrolio costituisce una fonte di ricchezza per il nostro Paese e soprattutto per le regioni sui cui territori insistono le attività di sfruttamento. Le compagnie petrolifere, spiegano, devono pagare una quota ogni metro cubo/tonnellata di gas o petrolio estratto in mare. Le cose però non stanno davvero così. Il dato di partenza sono le royalties, ovvero la percentuale che le compagnie petrolifere deve corrispondere allo Stato. Per l’Italia siamo ad un’aliquota del 7% per le estrazioni di petrolio in mare e del 10% per l’estrazione di gas che vengono però pagati solo se la produzione annuale supera le 50.000 tonnellate per il petrolio e gli 80.000 metri cubi per il gas. Grazie a queste franchigie impianti “poco produttivi” diventano convenienti perché poi la società produttrice può rivendere il prodotto “a prezzo pieno” In questo modo, riferisce La Stampa, “nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni”. Gli eventuali proventi delle royalties (qui il gettito per il 2015) vengono così ripartiti e ci fanno capire come la pretesa delle Regioni di avere voce in capitolo non sia del tutto infondata, anche perché lo Sblocca Italia prevede che le Regioni che autorizzano attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi vengano in parte esentate dal patto di stabilità. Come spiega Enrico Vega su Econopoly “costringere” le compagnie petrolifere a dover affrontare una procedura di rinnovo entro un tempo relativamente breve potrebbe spronarle ad estrarre le risorse più rapidamente e quindi a “sforare” il tetto della franchigia:

Votando Sì al referendum gli italiani otterrebbero limiti temporali per le concessioni definiti (in pochi anni). Quindi, banalmente, le compagnie energetiche dovrebbero (si suppone) estrarre più prodotto possibile entro i termini previsti. Sfondando le quote di franchigia e quindi pagando più royalty. Il tutto a vantaggio della comunità locale e nazionale.

Questo processo non è però affatto scontato né automatico, ma il fatto che le compagnie potrebbero essere costrette, in tempi relativamente brevi, a smantellare le piattaforme potrebbe disincentivare futuri investimenti privati nell’ambito dei combustibili fossili. C’è inoltre da considerare che prima o poi quei giacimenti finiranno, fino ad ora le compagnie petrolifere, mantenendo basso il livello delle quantità estratte, hanno anche evitato di dover affrontare il problema della dismissione degli impianti dal punto di vista della ricollocazione dei lavoratori.

Chi invita all’astensione infrange la legge?

Una grande fetta del Partito Democratico (diciamo esclusi gli otto presidenti di Regione che hanno proposto il referendum) e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi hanno fatto sapere che la posizione del partito è l’astensione. Ieri anche l’ex-Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è espresso a favore dell’astensione, scatenando le ire dell’opposizione che è tornata a parla del Presidente della Repubblica colluso con Renzi e dicendo che è uno scandalo che la (ex) più alta carica dello Stato inviti a disertare le urne. Ci sono però delle precisazioni da fare. L’astensione è, nell’ottica del funzionamento dell’istituto referendario, perfettamente legittima. Infatti la soglia del quorum (fissata alla percentuale del 50+1 degli aventi diritto) ha un senso proprio per differenziare il referendum dalle normali votazioni (che non hanno quorum). La possibilità di astenersi è quindi una delle tre che furono concepite al momento di creare l’istituto referendario in Italia. Ma è giusto che Renzi e Napolitano invitino all’astensione? È bene ricordare che Napolitano attualmente è un senatore a vita e che quando era Presidente si era espresso in maniera differente a proposito dell’astensione, non è infatti opportuno (ma non è nemmeno illegale) che chi riveste una carica istituzionale (ad esempio quella di Presidente del Consiglio) inviti pubblicamente i cittadini a non andare a votare. Da “semplice senatore” invece Napolitano lo può fare.
 

Le trivelle uccidono i capodogli?

Qualcuno ha tirato fuori la vecchia storia dei capodogli spiaggiati a Vasto a causa delle trivellazioni nell’Adriatico, solo che c’è un problema grosso come una casa nel sostenere questa tesi. Ovvero che le trivellazioni nel mare Adriatico italiano non hanno luogo da anni. Ad affermarlo è Assomineraria, l’associazione delle industrie minerarie e petrolifere aderente a Confindustria. Nel 2011 proprio alcuni comuni della zona fecero ricorso al Tar contro le concessioni alla Petrolceltic del ministero dell’Ambiente. L’azienda irlandese ottenne qualche anno fa l’autorizzazione a perlustrare l’Adriatico da Pescara al Gargano, ma nel 2012 tutto venne fermato dal tribunale amministrativo regionale:

Così, i sindaci di diversi comuni costieri di Abruzzo e Molise hanno potuto salvare le scogliere e i panorami di Punta Penna, località marittima poco più a nord di Vasto, grazie a due sentenze con cui il presidente del Tar del Lazio, Antonio Vinciguerra, ha rigettato le due autorizzazioni concesse nel 2011 dal Ministero dell’Ambiente alla Petroceltic Italia, fermamente intenzionata a procedere con un’operazione di air gun: non una trivellazione vera e propria, bensì un’ “ispezione sismica” che prevede raffiche di aria compressa sparate contro i fondali marini al fine di disegnare una mappatura della composizione del suolo per poi, eventualmente, procedere con la perforazione.

E quindi? «Sono anni che nell’Adriatico italiano non vengono effettuati rilievi geofisici di sismica a riflessione (Air Gun). L’ultimo rilievo geofisico nel mare croato è stato completato nel gennaio 2014 in preparazione del bando di gara che il governo croato ha annunciato lo scorso aprile per assegnare aree per la ricerca petrolifera a mare. Altre acquisizioni sismiche sono state effettuate da Grecia e Malta agli inizi dell’anno in corso. Sarebbe bastata questa banale verifica per escludere qualsiasi correlazione tra tali attività e lo spiaggiamento dei capodogli a Vasto», scrive Assomineraria nella sua nota stampa.

«Il referendum? Astensione per Regeni e i marò»

Per ultime lasciamo due delle cazzate più fantasiose e divertenti, di quelle che difficilmente sposteranno la bilancia dei voti. La prima è l’uscita anomala di Giampaolo Galli, docente, capo economista di Confindustria e attualmente parlamentare del Partito Democratico, che ha sempre dimostrato di essere una persona seria. Ma si sa, la politica rende ridicoli. Ecco perché oggi su Twitter Galli ha sentito la necessità di argomentare in questa maniera la sua legittima scelta di astenersi al referendum sulle trivellazioni del 17 aprile:
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La teoria del complotto sui profughi in cambio di trivelle

La seconda è quella del deputato a 5 Stelle Mirko Busto sulla sua pagina Facebook segnala una interessante teoria del complotto su Italia e Malta: secondo il deputato della Repubblica italiana ci sono “voci” per cui il nostro governo avrebbe barattato l’accoglienza dei profughi con la possibilità di sfruttare giacimenti petroliferi in acque maltesi:

Con insistenza si susseguono voci, nazionali e internazionali, per cui il nostro Governo avrebbe barattato l’accoglienza sul suolo italiano dei barconi che dovrebbero essere recuperati da Malta in cambio della possibilità di sfruttare i giacimenti petroliferi in acque maltesi.
Con un’emergenza migranti ogni giorno più drammatica un simile accordo sarebbe inaudito!
Mentre l’Italia è al collasso e in perenne emergenza immigrati i centri accoglienza di Malta, nonostante la sua posizione, sono praticamente vuoti e le loro navi ferme al porto. Perché? Perché ogni barcone che passa nell’area di interesse maltese verrebbe recuperato da navi italiane ed europee e attraccato sul nostro territorio. Territorio ormai incapace di fornire qualsiasi forma di accoglienza e adeguata assistenza a un numero sempre maggiore di migranti.

Lo stesso deputato segnala alcune fonti che hanno alimentato la teoria del complotto. Tra queste c’è Zerohedge che cita come fonte il leader dell’opposizione maltese, Simon Busuttil del Partito Nazionalista. Nell’ordine:
a) Il capo dell’opposizione a Malta ha tutto l’interesse ad accusare il governo di nefandezze, cosa che accade anche nel resto del mondo. È la politica, monnezza.
b) è vero che tra Italia e Malta ci sono discussioni riguardo lo sfruttamento di giacimenti petroliferi, che risalgono però a ben prima dello scoppio della crisi dei rifiugiati
c) la notizia è identica a quella sollevata a settembre dal Giornale, rimbalzata sui media internazionali e finalmente smentita dal governo di Malta:

As already stated, the Government of Malta would like to clarify there is no agreement, formal or informal, with the Italian government about immigration. Italy and Malta have been collaborating closely for the past few years to make sure that people are saved at sea.
Disembarkation of migrants rescued at sea is always conducted as per applicable international obligations to Malta, and as per respective operational plans in case of participation in Frontex or any other operation. Malta has been devoting 100% of its resources to save immigrants at sea.
There are absolutely no discussions or agreements linking migration with oil exploration.
Reports stating the contrary are factually wrong

Nessuno dei report citati dà notizia della smentita del settembre scorso.
d) politicamente, come si capisce bene dallo sfruttamento a fini elettorali della tematica dei profughi, che va da Salvini & Meloni fino attualmente al deputato Busto, un accordo che prevedesse l’accollarsi un problema politico in maniera definitiva in cambio dello sfruttamento di un giacimento (difficile da tradurre in consenso a fini elettorali) è incredibile; se poi l’accordo venisse davvero scoperto e fosse davvero in questi termini chi lo avrebbe firmato dovrebbe fuggire in Patagonia.
La vignetta in copertina è di Marcello Junio Clerici

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