La fine della storia di Titti Brunetta e Beatrice Di Maio

Nel novembre del 2016 La Stampa "rivelava" l'esistenza di una rete di propaganda pro M5S guidata da Beatrice Di Maio "spiegando" che Palazzo Chigi aveva incaricato la procura di indagare. Oggi Titti Brunetta (ovvero Beatrice Di Maio) è stata condannata per diffamazione nei confronti di Luca Lotti. Curiosamente la Stampa non riporta la notizia

La storia che era cominciata con Palazzo Chigi che denuncia la cyberpropaganda pro M5S è finita con una multa da 1.500 euro per un solo tweet. Un cinguettio pubblicato non da uno degli account del network pentastellato ma da Tommasa “Titti” Giovannoni Ottaviani, la moglie di Renato Brunetta. Il decreto penale di condanna, con pena sospesa, riguarda il tweet in cui la Giovannoni – che utilizzava lo pseudonomo di “Beatrice Di Maio” – pubblicava alcune foto del ministro Delrio assieme a Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti con la frase “Ho le foto di #Delrio coi mafiosi”.



La Stampa e la fake news sul network di cyberpropaganda M5S 

La frase è contenuta nelle intercettazioni – eseguite nell’ambito dell’inchiesta sul petrolio in Basilicata – di una conversazione tra Walter Pastena e Gianluca Gemelli  dove il primo prometteva all’ex compagno della ministra Guidi di poter fornire materiale compromettente per fare un dossieraggio su Delrio. All’epoca l’identità di Beatrice Di Maio non era nota e Jacopo Iacoboni su La Stampa scrisse un articolo per spiegare che quell’account, assieme ad altri profili Twitter, faceva parte di una rete occulta di “ghost” e di fake che lavoravano tutti assieme con un unico obiettivo: attaccare Matteo Renzi e infangare l’operato del suo governo.

Il tweet per cui Titti Brunetta è stata condannata a pagare 1.500 euro di multa

Nell’articolo pubblicato dall Stampa dal titolo “Palazzo Chigi denuncia l’account della cyber propaganda pro M5S“ Iacoboni raccontava di essere in possesso di una non meglio precisata «analisi matematica sui dati della parte pubblica di twitter» effettuata tramite mai ben definiti strumenti di controllo che gli avrebbero consentito di ricostruire nel dettaglio i legami di un network che comprendeva – tra gli altri – anche il noto vignettista a 5 Stelle Marione (al secolo Mario Improta). Iacoboni inoltre scriveva che a denunciare per diffamazione gli autori dei tweet era stato “Palazzo Chigi” quando in realtà la denuncia era stata fatta da Luca Lotti, che all’epoca era sì sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ma che non ha denunciato per conto di Palazzo Chigi.



La cosa più sconcertante è che Iacoboni non ha mai fornito prove e dati in base ai quali è riuscito a ricostruire la mappa della rete della propaganda pro-M5S. Allo stesso tempo la stampa intervistava sull’argomento un esperto che – senza entrare minimamente nello specifico – confermava che anche in Italia esistevano “architetture organizzate sul Web”. Il lettore della Stampa si poteva quindi fare l’idea che quel network raccontato da Iacoboni esistesse davvero.



Le interrogazioni parlamentari e la “confessione” di Titti Brunetta

A rendere ancora più ridicola la faccenda contribuirono una serie di dichiarazioni e interrogazioni parlamentari presentate da esponenti del Partito Democratico. In particolare in quella del capogruppo in Commissione Affari Costituzionali Emanuele Fiano (PD) dove si chiedeva di sapere se “Esiste una struttura che lavora nel web con il compito di diffamare con notizie false Il Pd e le istituzioni della Repubblica? Se vero, da chi è controllata e in che modo è organizzata?” e che mira “ad ottenere chiarimenti dopo una denuncia alla Procura di Firenze del sottosegretario Luca Lotti e da un’inchiesta giornalistica sul ruolo opaco che sarebbe svolto da un account legato al M5s gestito da una cosiddetta ‘star della galassia social’ che risponde al nome di Beatrice Di Maio“. Come si può evincere da quest’ultimo passaggio a presentare denuncia non è stato “Palazzo Chigi” ma il sottosegretario Lotti.

La Struttura dietro a Beatrice Di Maio

Su Twitter Iacoboni invece insisteva a dire che la Procura di Firenze stava “indagando sull’account chiave” della Struttura della propaganda pro-M5S. Come raccontò Davide Vecchi sul Fatto Quotidiano non esisteva alcuna un’indagine “sull’account chiave” della propaganda pentastellata ma solo eventualmente un’indagine volta ad accertare la possibilità di dare corso alla querela di Lotti. Anzi ad essere precisi anche la denuncia di Lotti, nel momento in cui è stato pubblicato il pezzo di Iacoboni, non era ancora ancora stata trasmessa alla Procura di Firenze.

Il resto è storia: Franco Bechis su Libero pubblica un’intervista a Titti Brunetta dove la moglie dell’ex ministro rivela di essere lei Beatrice Di Maio. Nel frattempo, nonostante la “scoperta” di Iacoboni fosse stata subito fortemente ridimensionata (del resto ad oggi non è stata fornita alcuna prova o esempio di quei “modelli matematici”) La Stampa aveva insignito Jacopo Iacoboni del premio Igor Man. Riconoscimento che la direzione del quotidiano torinese assegna al giornalista che si più si è messo in evidenza.

A quel punto il quotidiano diretto da Maurizio Molinari (che curiosamente oggi non dà notizia della multa da 1.500 euro) pubblicava un trafiletto anonimo in cui sosteneva che la notizia è quella della querela per diffamazione, che nell’articolo era immersa all’interno di una serie di…curiose discussioni su “analisi matematiche” di cui non sono mai state pubblicate le prove e in cui si dicevano cose come: «L’account si muove dentro una struttura di propaganda. Al vertice ci sono i mediatori top. In basso, invece, semplici attivisti grillini o profili fake che rilanciano post e tweet».  Strano, visto che nella motivazione del premio Igor Man rilasciata a Iacoboni si parlava della «cyberpropaganda M5S già finita nel mirino della procura». Oggi la storia si sgonfia definitivamente, nessun network, nessuna indagine sulla “rete”, solo una multa per un tweet. Con buona pace di Gianni Riotta, che sempre dalle colonne della Stampa (e s Twitter) guida la battaglia contro le fake news prodotte dalla Rete. Evidentemente quelle prodotte dal giornale per cui lavora non sono così rilevanti.