Come sarà la presidenza Trump

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-11-10

A Manhattan le prime proteste contro l’elezione. Le quattro incognite nella politica di Trump. Il disimpegno nel Medio Oriente. La carta bianca per Putin. Le promesse elettorali e la politica economica espansiva che farà esplodere il debito. E le ripercussioni in Europa. Dove i partiti populisti saranno legittimati dalla sua vittoria

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Come sarà la presidenza Trump? Decine di migliaia di persone al grido di Not My President sono scese in strada in tutti gli Stati Uniti per protestare contro l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Le due manifestazioni piu’ imponenti a New York e Chicago. La tensione è alle stelle a Midtown Manhattan, dove si trova la residenza del nuovo presidente, la Trump Tower sulla Fifth Avenue. L’allerta e’ massima, con centinaia di poliziotti schierati tra cui agenti dell’antiterrorismo e in assetto anti sommossa. Un corteo ha sfilato lungo la Sixth Avenue per poi confluire verso la Trump Tower che però è già blindatissima dalla notte del voto, con numerosi camion anti-bomba a protezione dell’intero isolato, quello dove si trova anche l’iconica gioielleria Tiffany. Al grido di Love Trumps Hate, The Future is Female, e No Trump, No KKK, No racist Usa in migliaia si sono radunati a Downtown Chicago, mentre una marcia di studenti è stata organizzata anche nel campus di Berkeley.
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Come sarà la presidenza di Donald Trump

Intanto si comincia a discutere di quali saranno le incognite della presidenza Trump. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera spiegano le quattro incognite economiche che gli USA dovranno affrontare. La prima è che Trump non sarà «moderato» da un congresso a maggioranza democratica. Per almeno due anni un solo partito, il repubblicano, controllerà la Casa Bianca, il Senato e la Camera. Il governo degli Stati Uniti funziona meglio quando un solo partito non controlla tutto: sono checks and balances in azione. Ora non ce ne saranno nella scelta dei giudici della Corte Suprema, anche se il meccanismo della maggioranza qualificata per alcune decisioni importanti potrebbe mitigare lo strapotere dei repubblicani.

La seconda preoccupazione è il protezionismo. Sul commercio internazionale il presidente degli Stati Uniti ha poteri esecutivi, ad esempio può decidere da solo di imporre un dazio su alcune importazioni. Il rischio di un’evoluzione protezionistica nel mondo è di una gravità senza precedenti. Un freno al commercio internazionale potrebbe segnare la fine della ripresa in atto dopo la crisi finanziaria. Su questo l’establishment repubblicano tradizionale, di tendenza liberista, deve assolutamente alzare la voce.
La terza preoccupazione è il debito pubblico. Durante la crisi finanziaria il debito pubblico americano è salito dal 60 a quasi il 100 per cento del Pil. Trump ha ripetuto, anche nel suo primo discorso dopo la vittoria, di voler lanciare un grande programma di investimenti in infrastrutture: ha citato ponti, autostrade, scuole e ospedali. In questo, per la verità, il suo programma non è gran che diverso da quello di Hillary Clinton e dei suoi consiglieri economici keynesiani. La differenza sta nel fatto che, al contrario di Clinton, Trump vuole anche ridurre, e di molto, le imposte. Quindi il debito si impennerà ancor più di quanto avrebbe fatto se avesse vinto la sua rivale. Oggi il debito è a buon mercato, ma i tassi di interesse non rimarranno così bassi per sempre. Non solo, Trump non ha detto nulla sui programmi di Medicare (assistenza sanitaria gratuita per anziani) e pensioni, anzi ha detto che con la sua mirabolante conduzione dei conti pubblici non ci sarà bisogno di far nulla. Fra le tante promesse poco credibili di Trump questa è la più grave.

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Come ha vinto Donald Trump (Corriere della Sera, 10 novembre 2016)

Infine, la quarta incognita è l’indipendenza della banca centrale. La Federal Reserve non è parte della Costituzione americana, è stata creata nel 1913 con una legge ordinaria. Il Congresso potrebbe cambiarla, eliminare l’indipendenza e sostituire i vertici ridefinendo la durata dei loro mandati. Ciò sarebbe molto grave. L’indipendenza della banca centrale dal via vai della politica è una delle istituzioni che storicamente hanno garantito politiche monetarie sagge e stabili. Nell’immediato è probabile che una nuova Fed non più indipendente, aumenterebbe i tassi più in fretta di quanto avrebbe fatto Janet Yellen, dato che da tempo i repubblicani (compreso Trump) criticano la Fed per una politica monetaria troppo espansiva. Quindi l’aumento dei tassi di interesse accelererebbe, e con questo il dollaro si rafforzerebbe, ma il peso del debito pubblico per i contribuenti salirebbe.

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Donald Trump e l’amicone Putin

In ogni caso, scrive Renzo Guolo per l’AGI, a salutare con soddisfazione l’arrivo alla Casa Bianca di Trump sono molti dei protagonisti mediorientali. A partire dalla Russia di Putin che, dall’annunciato disimpegno americano nella regione non potrà che trarre vantaggi. Difficile che Mosca non riempia quel vuoto. Allargando la sua già estesa sfera d’influenza nell’area. Anche la Turchia ha visto con favore la sconfitta della Clinton, temendo la simpatia dell’ex-segretario di Stato per i curdi e le sue critiche sul terreno della difesa dei diritti umani. Ad Ankara si spera ora che Washington cambi linea anche sulla richiesta di estradizione di Gulen, accusato di essere il grande burattinaio del tentato golpe contro Erdogan. Il presidente egiziano al-Sisi è uno dei leader che ha esultato per il trionfo del magnate americano. L’Egitto non ha mai gradito le scelte politiche dell’amministrazione Obama, accusata di essere all’origine delle “primavere arabe” con l’atteggiamento critico nei confronti degli autocrati che guidavano i regimi alleati. Il neoisolazionismo trumpiano consente ad al-Sisi un margine di manovra maggiore sia sul versante interno, dove l’attenzione al tema della difesa dei diritti umani sollevata da Obama generava stizzosa rabbia, sia sul versante estero, dove il Cairo persegue i propri obiettivi, come in Libia, anche in contrasto con quelli che, almeno sin qui, sono stati gli interessi americani.

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I flussi elettorali (La Repubblica, 10 novembre 2016)

Anche Lucio Caracciolo su Repubblica dice la sua sul nuovo ordine mondiale prossimo venturo:

Il dossier più caldo è quello russo. Fra Stati Uniti e Federazione Russa è in corso una guerra ibrida, con epicentri in Ucraina e in Siria. Specialmente nel primo caso, il rischio che dallo scontro limitato e indiretto si slitti per accidente al conflitto diretto, coinvolgendo la Nato, è tutt’altro che trascurabile. Trump parrebbe deciso a disinnescare questa mina, tanto da rimbrottare il suo vice Mike Spence per aver denunciato le “provocazioni” russe. Le reazioni di Mosca alla vittoria del tycoon newyorchese sono piuttosto sobrie, anche perché molti al Cremlino preferivano avere a che fare con un nemico dichiarato, ma noto, come Hillary Clinton, piuttosto che con l’incognita Trump. Putin ha comunque messo in chiaro di essere interessato a un
rapporto “paritario” con la Casa Bianca.
È il suo sogno da sempre, finora inappagato: essere trattato da coprotagonista globale, non puro attore regionale, come pretendeva Obama. In ogni caso, per far la pace con Mosca Trump dovrà passare sul cadavere del Pentagono, per nulla interessato a perdere risorse e visibilità acquisite nelle crisi di Mesopotamia e Ucraina. Fatto è che, grazie agli errori e alle incertezze di Obama, Putin occupa il centro del ring. Anche per aver agganciato strumentalmente Pechino e aver mantenuto, sotto il pelo dell’acqua, solidi legami con Berlino: carte da giocare al tavolo di un eventuale compromesso globale con Washington. Se un’ipotesi del genere si profilasse all’alba della presidenza Trump, possiamo star certi che al Congresso come nelle comunità militari e dell’intelligence — ma persino ai gradi medio-alti della Casa Bianca — il fronte dei sabotatori sarebbe piuttosto vasto. E Trump scoprirebbe che per cambiare di qualche grado la rotta di una corazzata non basta l’energia di un volenteroso ammiraglio.

Mentre Ferdinando Giugliano spiega che il 45esimo presidente ha promesso un taglio dell’aliquota sui profitti aziendali dal 35% al 15%, oltre a una semplificazione delle tasse sui redditi. A queste e altre misure, che secondo il Committee for a Responsible Federal Budget, potrebbero far aumentare il deficit di oltre 9.500 miliardi di dollari in dieci anni, Trump vuole ora aggiungere un piano di infrastrutture, annunciato ex abrupto nel suo primo discorso da presidente. L’obiettivo è raddoppiare il tasso di crescita Usa fino a quasi il 4%, ma molti economisti dubitano che questo sia realistico. Di sicuro, una politica fiscale irresponsabilmente espansiva farebbe schizzare in alto l’inflazione: ieri, i titoli di Stato decennali sono saliti sopra il 2% per la prima volta da gennaio in prospettiva di una possibile “riflazione”. Le agenzie di rating hanno però immediatamente segnalato i rischi per i conti pubblici americani: «L’impatto del piano Trump sarebbe negativo per la credibilità dei titoli di Stato Usa, poiché i soli tagli delle tasse non possono generare abbastanza crescita tale da compensare la perdita di gettito», ha scritto Fitch.

Il futuro possibile

Intanto si discute sulle ripercussioni che la vittoria di Trump potrebbe avere nell’Europa sempre più spezzata e dove i partiti populisti si preparano a incassare il dividendo elettorale di una crisi infinita a cui le élites europee sono state incapaci di dare una risposta. A marzo lo xenofobo Geert Wilders avrà buone chance di prendersi l’Olanda e lanciare la volata all’alleata che ha già a Bruxelles, quella Marine Le Pen praticamente sicura di approdare al ballottaggio per la presidenza tra aprile e maggio. La pregiudiziale anti Front National, sinora sempre applicata, ha indotto i partiti francesi di sistema (socialisti, Républicains, cioè la destra tradizionale) a difendersi insieme con successo contro il pericolo nero. Serpeggia il sospetto che ora, quando l’incredibile sta diventando vero, lo stratagemma dell’argine comune al secondo turno non basti. Se è possibile Trump alla Casa Bianca perché non Marine all’Eliseo? La terra delle libertà e dei diritti dell’uomo ritroverebbe la sua minoritaria, antistorica ma non scomparsa radice vandeana. L’Europa si è sempre retta sull’altalenante equilibrio tra Parigi e Berlino e proprio in Germania il prossimo autunno finirà il tour del voto. Con i dubbi che ormai investono persino l’ex solidissima Angela Merkel. Sembrava immune, la cancelliera, dal virus populista e lo è stata almeno fino alla scelta di aprire le porte a un milione di profughi siriani. Da allora “Alternative fuer Deutschland”, movimento nato nelle università e cresciuto nelle piazze, ha raggiunto consensi a due cifre minando persino la proverbiale stabilità tedesca.

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La galassia populista in Europa (La Stampa, 10 novembre 2016)

Foto copertina di Johnacecil su Twitter

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