Quello che Boeri non dice

di Guido Iodice

Pubblicato il 2015-12-02

Il presidente dell’Inps ha lanciato ieri un allarme inquietante: i nati nel 1980 dovranno lavorare fino a 70-75 anni e godranno di pensioni più basse rispetto a quelli attuali. Ma tenere al lavoro fino a tardi vuol dire mettere un freno alla già scarsa produttività, con il risultato che avremo meno crescita. L’Italia si sta mangiando il suo futuro e nessuno prova ad evitarlo

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Il presidente dell’Inps, l’economista Tito Boeri, ha lanciato ieri un allarme inquietante: i nati nel 1980 dovranno lavorare fino a 70-75 anni e godranno di pensioni più basse rispetto a quelli attuali: il 25% in meno, considerando tutto l’arco di vita pensionistica che grazie all’innalzamento dell’età pensionabile si accorcerà significativamente. Boeri ha anche aggiunto che per i molti che stanno vivendo una carriera discontinua, ci saranno problemi di “adeguatezza” dell’assegno (leggasi: percepiranno pensioni così basse che avranno bisogno di sussidi di povertà). Boeri ha inoltre accennato al problema della crescita, poiché con un tasso di crescita basso (ipotizzato dell’1% l’anno per i prossimi decenni) sarà sempre più complicato finanziare le pensioni. Problema che però le riforme non risolvono, semmai aggravano. Tenere al lavoro persone di 70-75 anni vuol dire mettere un freno alla già scarsa produttività, con il risultato che – a parità di altri fattori – avremo meno crescita. È insomma un serpente che si morde la coda.

Al lavoro fino a 75 anni?

Boeri ha parlato ieri durante la  sesta edizione del report biennale Pension at a Glance 2015 dell’OCSE, illustrando un’analisi campionaria effettuata su 5mila lavoratori nati nel 1980 e con una prospettiva di pensionamento nel 2050. Il Sole 24 Ore ha sintetizzato l’argomento:

Ne risulta che chi oggi ha 35 anni prenderà nell’intera vita pensionistica in media un importo complessivo di circa il 25% inferiore a quella della generazione precedente (i nati intorno al 1945) pur lavorando fino, appunto, a 70 anni. L’impatto sull’assegno è naturalmente amplificato a seconda degli scenari considerati, con un appiattimento degli assegni verso il basso in caso di “buchi contributivi” di 10 anni o di una crescita del Pil in termini reali dell’1% anziché dell’1,5% considerato nello scenario  base della Ragioneria generale. Quando si analizzano gli importi di pensione – ha spiegato Boeri nel corso della presentazione del Rapporto Ocse – «bisogna tener conto anche da quando questi assegni sono stati percepiti». Se si guarda alla distribuzione per età alla decorrenza delle pensioni dirette del Fondo lavoratori dipendenti si scopre che tre quarti sono state percepite prima dei 60 anni. Secondo le proiezioni Inps per i lavoratori classe 1980 solo il 38,67% la prenderà prima dell’età di vecchiaia, contro il 78,36% di pensionati anticipati della classe 1945. Insomma, sarà più basso il trasferimento pensionistico complessivo dei lavoratori attuali, che godranno di un tasso di sostituzione medio intorno al 62% (vicino al 63% della media Ocse odierna ma lontano dall’80% circa delle pensioni oggi vigenti in Italia).
Anche nell’analisi di Boeri un focus è stato dedicato alla differenza di reddito tra lavoratori e pensionati: negli ultimi cinque anni la distanza media s’è ristretta dai 5.760 euro del 2007 ai 4.320 euro del 2013. Ed è stato fatto notare che i redditi dei pensionati che hanno retto meglio all’impoverimento degli ultimi anni sono in molti casi integrati da altre voci (su 15 milioni di pensionati 1 milione ha un reddito prevalente diverso dalla pensione). Analoghe le conclusioni(e le proposte di policy) uscite dal report Ocse e dall’indagine Inps: per ridurre il rischio di insostenibilità sociale del nostro modello va nettamente aumentata la partecipazione lavorativa e vanno assicurate carriere lunghe e continuative. Ma serve anche una maggiore flessibilità di scelta tra tempo di lavoro e vita familiare. Infine occorre mettere in campo misure di tutela di base del reddito più ampie per chi perderà il lavoro, forse anche ripensando i limiti di accesso alla pensione anticipata (serve un assegno almeno pari a 2,8 volte il minimo oltre ai requisiti di età e contribuzione) o di vecchiaia (1,5 volte il minimo).

boeri pensioni 75 anni
Infografica da Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2015

Ma sarebbe il caso anche di notare un altro effetto. Ovvero quello che stiamo vedendo negli ultimi due anni: la disoccupazione giovanile schizza alle stelle perché la domanda di lavoro è bassa e licenziare un giovane precario è molto più semplice che licenziare un lavoratore a tempo indeterminato. E così accade che i padri rubino il lavoro ai figli. Di fronte a questi problemi, assistiamo a proposte di politica economica a dir poco ridicole. Si dice ad esempio che l’Italia e l’Europa hanno un problema demografico (gli anziani aumentano in rapporto alla popolazione) e quindi bisogna fare più figli. C’è chi arriva a proporre 5000 euro l’anno per le neomamme. Chiaramente si tratta di una sciocchezza: il mercato del lavoro già non assorbe i giovani che ci sono, figuriamoci se ne aggiungiamo altri. Nel frattempo i dati ci dicono che la cancellazione dell’articolo 18 e gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato non hanno sortito effetti sostanziali. La disoccupazione si riduce con estrema lentezza e in parte solo perché aumentano gli scoraggiati.

L’Italia che si mangia il suo futuro

Di fronte a questi ragionamenti che potremmo definire di buon senso, assistiamo a risposte che, direbbe Keynes, hanno una parvenza di serietà solo perché risultano così controintuitive da indurre l’interlocutore a pensare che ci sia qualche ragione profonda che gli sfugge. La realtà è che invece sono davvero ciò che appaiono: assurdità. Ad esempio, di fronte alla constatazione che i padri “rubano” (involontariamente) lavoro ai figli rimanendo in attività invece che andare in pensione, si risponde che il numero di posti di lavoro non è fisso. Ovviamente non lo è. Ma il punto è che il numero di posti di lavoro non dipende da quanti lavoratori sono disponibili, e in larga misura non dipende neppure dalla loro disponibilità ad accettare salari minori. In altre parole, il numero di posti di lavoro non è determinato nel mercato del lavoro, ma nel mercato delle merci. Solo se gli imprenditori attendono una domanda maggiore di quella corrente allora assumeranno nuovi lavoratori, e viceversa se attendono una domanda minore ne licenzieranno una parte. Rispetto al mercato del lavoro, quindi, è perfettamente corretto dire che la domanda di lavoro è “data” e quindi gli interventi sul mercato del lavoro non faranno altro che ridistribuire il lavoro domandato fuori da esso. Ecco perché, come ampiamente previsto, le riforme del mercato del lavoro non stanno portando all’aumento dell’occupazione. Considerazioni simili possono essere fatte rispetto al tanto sopravvalutato problema demografico. Non parliamo poi delle presunte proprietà taumaturgiche delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni: da quando l’Italia si è imbarcata in vasti programmi di privatizzazione e in diverse significative liberalizzazioni (alcune riuscite, altre meno), il tasso di crescita della produttività è addirittura diminuito. Non stiamo dicendo che ciò è accaduto a causa delle liberalizzazioni e delle privatizzazione, ma sicuramente che esse non hanno contribuito in maniera significativa a invertire la tendenza. Non solo quindi non si affronta la crisi congiunturale, ma si danno risposte sbagliate e inefficaci (quando non addirittura deleterie) anche ai problemi strutturali, i più importanti dei quali non vengono neppure citati nel dibattito pubblico. Ad esempio, mentre ormai da almeno 35 anni sappiamo che la dimensione delle imprese è un fattore frenante per il nostro paese (lo scriveva Giorgio Fuà nell’ormai storico “Problemi dello sviluppo tardivo in Europa”, datato 1980), il discorso pubblico è tutto incentrato su quanto sono “smart” e “cool” le microimprese, l’autoimpiego e le startup. Altro che non gravare sulle future generazioni: l’Italia si sta mangiando il suo futuro e nessuno sta provando ad evitarlo.
Foto copertina da Mataran

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