Come cambiare la privacy su Facebook dopo lo “scandalo” di Cambridge Analytica

Ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare l'emotional contagion del nuovo super cattivo dell'Internet (e a controllare le impostazioni del mio account Facebook)

Che ne sarà della nostra privacy e dei nostri dati personali ora che si è scoperto che un’azienda li avrebbe utilizzati per condizionare i risultati elettorali negli USA? Sono passati pochi giorni dalle rivelazioni sull’attività di raccolta di informazioni da parte di Cambridge Analytica durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 e molti si interrogano sull’opportunità di abbandonare Facebook. Per proteggersi, dicono. Per evitare che i propri dati personali (gusti musicali, orientamenti politici, liste di amicizia e così via) finiscano nelle mani dei malintenzionati di turno.



Aiuto, come posso difendermi da Cambridge Analytica??

Per prima cosa è meglio spiegare un aspetto del cosiddetto “scandalo” di Cambridge Analytica. Molti giornali hanno probabilmente esagerato la portata delle rivelazioni fatte da Christopher Wylie sul Guardian lunedì. E non solo perché la vicenda era in realtà nota già dal 2015 (si legga questo pezzo del New York Times di cui avevamo parlato su neXt Quotidiano) ma soprattutto perché Cambridge Analytica non ha fatto altro che sfruttare delle potenzialità che le venivano date da Facebook. Non è solo Cambridge Analytica a raccogliere dati, lo fanno tutte le App che utilizziamo e sulle quali abbiamo effettuato l’accesso tramite Facebook. All’epoca il consiglio dell’esperto di sicurezza informatica Fabrizio Bugli (@fabfree_) fu quello di invitare gli utenti a «effettuare una review periodica di ciò che abbiamo inserito nel nostro profilo FB, e verificare che i permessi di accesso siano il più possibile impostati come privati».



Per modificare le impostazioni ed eventualmente revocare le autorizzazioni è sufficiente andare nel proprio pannello di controllo alla voce “App” dove comparirà l’elenco di tutte le applicazioni che sono collegate al nostro account Facebook (tra cui ovviamente anche i giochi, ma non solo).



A questo punto si potrà scegliere di rimuovere completamente l’applicazione dal nostro account, in alcuni casi sarà possibile eliminare anche le attività condivise da quell’applicazione. Facebook informa che l’applicazione però “potrebbe ancora avere dei dati che hai condiviso”.

Se poi si va ad aprire l’applicazione si vedrà un riassunto di quali informazioni forniamo come utenti: ad esempio in questo caso oltre al nome e al cognome, l’immagine del profilo, l’età, il sesso e altre informazioni pubbliche (nonché l’indirizzo email).

Tra le opzioni è possibile anche chiedere allo sviluppatore della App di eliminare le informazioni memorizzate. Per farlo in questo caso l’App fornisce un ID utente univoco in modo da identificare il nostro account. Quello che dovrebbe accadere successivamente è che l’applicazione dovrebbe rimuovere i nostri dati personali. Il punto è che – come ha spiegato Mark Zuckerberg un paio di giorni fa – anche Cambridge Analytica aveva detto (e certificato) di aver cancellato i dati personali degli utenti. Evidentemente però non lo aveva fatto. Questo non significa che tutte le App si comportino in maniera sbagliata, ma nemmeno vuol dire che è il momento di abbandonare Facebook. Per sempre.

Quindi dobbiamo scappare da Facebook e smettere di usare Google?

Perché al di là della questione Cambridge Analytica e se davvero la profilazione degli utenti sia stata così efficace da poter condizionare l’esito delle elezioni (non dimentichiamoci che tra gli altri imputati ci sono anche gli hacker russi e per certi versi Wikileaks) il punto è che quello che ha fatto Cambridge Analytica con gli utenti statunitesi lo fanno ogni giorno, ogni minuto aziende come Facebook, Google, Amazon ovvero i big della tecnologia e di Silicon Valley. Lo ha scritto ieri su The Baffler Yasha Levine spiegando che il commercio dei dati personali degli utenti ha fruttato nel 2017 a Facebook 40 miliardi di dollari e a Google ben 110 miliardi di dollari.

Ad esempio: dal 2014 al 2017 Facebook si è servita di Atlas, una piattaforma di marketing acquistato da Microsoft il cui scopo era quello di fornire “people-based marketing” ovvero di garantire ai propri clienti la possibilità di raggiungere, con le proprie campagne pubblicitarie, persone reali su tutti i dispositivi e le piattaforme. Lo scorso anno poi il colosso di Menlo Park ha deciso di “dismettere” Atlas e di integrarlo all’interno dei propri strumenti di marketing. Perché una cosa è certa, se Facebook è gratuito (come anche Google) è anche perché non è Facebook (o Gmail, o Google Maps) il prodotto. Per certi versi sono gli utenti ad essere il prodotto da vendere agli inserzionisti. Non c’è nulla di malvagio o apocalittico in tutto questo. Siamo noi utenti a fornire informazioni a Facebook (o a Google o ad altri siti). A volte lo facciamo in maniera consapevole altre volte non ci rendiamo conto che le informazioni che regaliamo tramite i nostri “like”, ovvero le nostre preferenze in fatto di musica, sport, politica, orientamenti sessuali e così via sono importanti per tutti quelli che su Facebook vogliono vendere i loro servizi o prodotti.

Evidentemente il futuro tecnologico non è la realtà utopica immaginata da futurologhi alla Casaleggio. Persone che credevano che le democrazie del web sarebbero state la soluzione a tutti i mali del Mondo portando Pace, Speranza e Equità sulla Terra ma che evidentemente avevano dimenticato un piccolo dettaglio: ovvero che la Rete non è un bene pubblico ma appartiene ad alcuni: siano essi gli Stati che ne detengono l’infrastruttura fisica o le grandi aziende che fanno girare i software che ci consentono di “vivere” l’Internet. Oggi molti sono preoccupati dal rischio che una nuova Cambridge Analytica possa influenzare l’esito di elezioni democratiche. Ma cosa ha fatto in fondo l’azienda di Alexander Nix che non fanno Facebook e Google ogni giorno? Le tecniche del “contagio emozionale” utilizzate dal nuovo supercattivone dell’Internet non sono altro che i fondamentali della comunicazione politica e del marketing. E proprio come un altro spauracchio di questi tempi, le Fake News (e le Echo Chamber) non sono state certo inventate (o scoperte) grazie a Internet.