PD, la scissione è disperata ma non seria

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2017-02-20

Anche oggi sui giornali prosegue la sceneggiata del “me ne vado anzi no sei tu che mi cacci”. Con una richiesta palese – primarie a luglio – e un obiettivo nascosto: ottenere che le altre correnti convincano Renzi a non ricandidarsi. Ma…

article-post

«Ho passato una bellissima domenica, ma non era questa», ha detto ieri Gianni Cuperlo citando Groucho Marx. E dopo la surreale assemblea del Partito Democratico – conclusasi con l’incredibile comunicato degli “scissionisti” Speranza, Emiliano e Rossi – è impossibile dargli torto.  Ieri infatti Matteo Renzi all’assemblea del Pd, si è dimesso da segretario. La minoranza ha attaccato: «Caduto nel nulla il nostro tentativo unitario, lui ha scelto la scissione». Ripassando di fatto la palla all’ex segretario e senza avere ancora il coraggio di annunciare un addio ancora rimandato.

PD, la scissione è disperata ma non seria

Prima infatti, a conclusione dell’assemblea, era arrivato il surreale intervento di Michele Emiliano. Che ha prima negato di aver detto quello che aveva detto il giorno prima – ovvero che voleva che Renzi non si ricandidasse alla segreteria – addossando alle agenzie di stampa la responsabilità di aver riportato le sue parole. E poi ha offerto una mediazione sulla conferenza programmatica prima del congresso che secondo lui avrebbe dovuto chiarificare (?) a tutti i motivi che avrebbero portato all’eventuale rientro della scissione. Quindi, un’ora e mezza dopo la conclusione dell’assemblea e lamentandosi per il mancato intervento finale dell’ex segretario – non poteva farlo, era dimissionario – i tre hanno addossato la responsabilità a Renzi di una scissione che non hanno avuto nemmeno ieri il coraggio di annunciare. Sintomatico in questo senso è il titolo dell’intervista rilasciata da Enrico Rossi a Monica Guerzoni sul Corriere della Sera, in cui si dice che “Qualcuno” si assumerà la responsabilità di spaccare tutto. Qualcuno, mica uno, altrimenti si sarebbe potuto chiedere chi.
pd scissione
Ma la chiarezza e la trasparenza dell’operazione scissione si può anche ammirare dalla risposta a una domanda chiara e semplice fatta a Rossi:

Lei non è più candidato alla segreteria del Pd?
«Se non ci saranno cose imprevedibili e improbabili, il mio lavoro sulle idee continuerà».

Più enigmatico della Sfinge. E pensare che nel Vangelo c’è scritto: “Il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto proviene dal Maligno”. Intanto Goffredo De Marchis su Repubblica fa la conta di quanti sarebbero disposti a seguire i tre:

I numeri: alla Camera vengono dati per sicuri 22 deputati bersaniani in uscita. Si uniranno ai 16 che firmarono per la candidatura di Arturo Scotto alla segreteria di Sinistra italiana. Scotto si è poi legato al nuovo progetto Pisapia e unirà le forze con i fuoriusciti del Pd. Così si costituisce un gruppo di 38 deputati. Al Senato Scotto non ha truppe. Ma i bersaniani sono tra i 12 e i 15, sufficienti per formare un gruppo autonomo, avere un capogruppo, ottenere i finanziamenti destinati alle forze presenti alle Camere. I sondaggi, spiegano, faranno il resto. Con le elezioni politiche alle porte, se il dato di una nuova forza cresce, salirà anche l’attrazione. Perché aumenteranno i posti per essere eletti. Un ragionamento poco nobile ma che fanno anche nel Pd renziano, almeno a giudicare dal fuorionda di Graziano Delrio.
Stumpo, da ieri, è incollato al telefono per capire la reazione dei territori dopo la sfida in assemblea. «Sto lavorando», è la sua risposta secca a chi lo cerca per un commento. Tutto è in movimento, i numeri sono ballerini. Molti dicono per difetto. L’onda dell’entusiasmo, della novità. Federico Fornaro, senatore bersaniano, fa una considerazione giusta: «La scissione è una cosa dolorosa. Io esco. Ma è difficile rispondere per gli altri. Lasciare un partito è una scelta troppo personale». Il gruppo scissionista del Senato è quello decisivo, può orientare le scelte del governo sulle misure che verranno prese per evitare il referendum sui voucher. “Diritti e lavoro” dice già come vorrà orientare il provvedimento dell’esecutivo su una parte del Jobs act.

Partito Democratico, arrivato al capolinea

Ma che ci sia grande unità nel fronte degli scissionisti è sintomatico dal retroscena firmato da Tommaso Ciriaco: “Quando fa buio il telefonino del governatore diventa incandescente. «La partita non è chiusa – ripete a tutti, dopo un incontro con gli altri “scissionisti” – e io voglio restare. Resto autonomo, non inseguo Bersani o D’Alema, ma voglio tenere dentro tutti». La linea non cambia, l’offerta alla segreteria è sempre valida: «Guerini – detta la linea ai suoi, per mettere ordine – non ha capito il senso di quanto abbiamo proposto: se ci concedono le primarie a luglio, noi ci siamo. Franceschini e Orlando hanno anche fatto delle aperture importanti, ma poi non sono stati conseguenti. Possibile che non capiscono che è interesse di tutti restare uniti? E che altrimenti rischiano anche loro di finire in minoranza molto presto?»”. Un retroscena che è persino divertente mettere a confronto con quello di Amedeo La Mattina sulla Stampa: “Eppure il suo intervento Emiliano aveva deciso di farlo in accordo con gli altri della minoranza dem, anche se magari i suoi compagni di strada non si aspettavano toni così soft e apparentemente remissivi. Rimaneva tuttavia l’idea che il segretario del Pd fosse riuscito nell’intento di dividere il fronte degli oppositori. «E questo non potevo permetterlo, perchè quando io dò la mia parola la mantengo. Si stava creando un equivoco che ho voluto subito fugare in maniera netta»”.

scissione partito democratico
I numeri della scissione del Partito Democratico (Corriere della Sera, 20 marzo 2017)

Ma se vale tutto e il contrario di tutto, allora c’è davvero poco che vale qualcosa. Il piano – disperato ma non serio – degli scissionisti sarebbe questo: a parte le bugie di Emiliano che ha avuto il coraggio di negarlo, vogliono che Renzi non si ricandidi alla segreteria; o meglio, vorrebbero che le correnti che appoggiano oggi Renzi (e segnatamente, quella di Franceschini) lo convincano a fare un passo indietro, magari assicurandogli in cambio (ma come???) la candidatura a premier alle prossime elezioni. Perché così in caso di sconfitta (o di non-vittoria) alle elezioni la sua stagione all’interno del PD sarebbe finita. C’è un dettaglio però: i calcoli li sanno fare anche dall’altra parte e acca’ nisciuno è fesso. E rinunciando così all’unico modo legittimo per ottenere il loro risultato: il voto. Altrimenti si scindono. Anzi no, forse.

Potrebbe interessarti anche