Pagati un euro all'ora: il caporalato dei call center

Categorie: Economia, Fact checking

Gli avvocati della Cgil hanno intenzione di utilizzare la legge per i caporali in agricoltura per le cause di lavoro degli operatori di call center. Tra i quali c'è chi viene pagato 92 euro dopo un mese di lavoro, chi lavora in un sottoscala, chi deve restituire metà dello stipendio

Lavoratori dei call center equiparati ai braccianti agricoli: ad accomunare le due figure apparentemente molto distanti è lo sfruttamento al quale vengono sottoposti, tanto che la Slc Cgil di Taranto ha deciso di utilizzare la legge contro il caporalato nell’ennesima vertenza che vedrà coinvolti operatori di un call center.



Il caporalato dei call center

«Vent’anni fa fu pubblicato “Cira e le altre. Braccianti e caporali”, il libro cult che raccontava la situazione nei campi: da allora nulla è cambiato nel mondo del lavoro, tranne il fatto che ora c’è una legge e gli avvocati della Cgil hanno intenzione di utilizzarla nel settore del call center perché in una sorta di “Far West” dei diritti, a donne e uomini alla ricerca disperata di lavoro non venga più calpestata la dignità», dice Andrea Lumino, segretario generale di SLC Cgil Taranto, che ha chiuso la conferenza stampa nella quale insieme a sette donne ha denunciato l’ennesimo caso di sfruttamento in un call center del capoluogo jonico.

«Un annuncio – ha spiegato Lumino – sul sito Subito.it parla di una azienda di Lecce con sede a Taranto in Via Bari, che offriva ben 12mila euro all’anno, ma la realtà non solo era differente, ma superava di gran lunga la più macabra immaginazione». A raccontare la realtà sono state proprio le lavoratrici che hanno trovato nel sindacato il sostegno per rompere la gabbia nella quale erano state rinchiuse. «Dopo un periodo di lavoro iniziato a metà ottobre e terminato a dicembre, hanno scelto di licenziarsi dopo aver avuto, non la busta paga, ma il primo allucinante bonifico allucinante di appena 92 euro per un intero mese di lavoro», racconta Lumino, «alle loro rimostranze, l’azienda ha risposto che se per 5 minuti si lascia il posto per andare al bagno si perdeva una intera ora di lavoro. Anche per un ritardo di tre minuti l’azienda non riconosceva alle lavoratrici la retribuzione oraria».

Pagati 33 centesimi l’ora

«Ho calcolato l’effettiva paga oraria con la calcolatrice e quando ho visto il risultato di 33 centesimi di euro all’ora ho pensato di aver sbagliato. Ho rifatto il calcolo più e il risultato era sempre lo stesso. Non riuscivo a crederci», ha aggiunto. Durante l’incontro con la stampa Lumino ha chiarito che la vertenza assume ora un valore pubblico della tutela dei diritti delle lavoratrici da una condizione di palese sfruttamento: «Abbiamo già interessato i nostri legali che hanno valutato la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato». Subito dopo la conferenza stampa è stato preparato un esposto denuncia delle lavoratrici e del sindacato da inviare alla Procura della Repubblica, ma anche al Sindaco, al Presidente della Provincia e al Prefetto. «Siamo certi – ha aggiunto Lumino – che vorranno intervenire su una vicenda come questa schierandosi a tutela dei diritti delle persone e del lavoro». Ma per Slc Cgil Taranto si tratta di un tema da sottoporre a tutto il mondo politico istituzionale: all’assenza di regole certe si aggiunge anche l’assenza di etica da parte della committenza e talvolta coinvolge anche lo Stato dato che lavoratori sottopagati sono stati individuati anche nei call center che operavano per conto dell’Inps.

Per Lumino «quello del call center è un settore “malato”: leggi sfavorevoli, aziende che andrebbero controllate addirittura dall’antimafia e dove i grandi committenti, come ad esempio Fastweb, pensano solo al massimo risparmio disinteressandosi dell’ovvio e conseguente sfruttamento di chi lavora che è l’anello più debole della catena. Noi continuiamo a stare al fianco di questi anelli deboli e se Fastweb non interverrà immediatamente lo riterremo corresponsabile di questa situazione: quello che hanno subito queste donne non deve essere considerato lavoro e questi call center vanno chiusi. Le istituzioni si schierino al nostro fianco e firmino il protocollo sulla legalità per i call center che abbiamo proposto lo scorso mese: non è più in ballo solo il rispetto di un contratto, ma la dignità di esseri umani e di una intera comunità. Queste donne sono state trattate allo stesso modo in cui sono state trattate le lavoratrici nei campi e quindi, come prima cosa, lotteremo perché la legge che punisce i caporali possa finalmente essere estesa anche al settore dei call center».



Le minacce per le denunce

Andrea Lumino ha subìto in passato diverse minacce: «La prima nel 2014», dice, «mi hanno fatto trovare un biglietto sul parabrezza della mia macchina, in un’altra occasione lo avevano chiamato sul cellulare: “Fai pure il comunista, ma non venire a rompere il c… a noi”». E’ stato lui il primo ad aver scoperchiato un vero e proprio sistema, quello dei call center “sottoscala”: «Ne abbiamo scoperti cento nella sola provincia di Taranto, ma sono sicuramente molti di più. Nel settore ha cominciato a vedere una fonte di reddito anche la malavita organizzata. I call center si sono rivelati un ottimo strumento per il riciclaggio di denaro sporco, metterne in piedi uno fuorilegge è semplice ed economico: basta allestire qualche postazione telefonica. Chi dà commesse a questi soggetti, però, è colpevole quanto loro. A Grottaglie, in provincia di Taranto, abbiamo scoperto un call center in un garage, le operatrici lavoravano accedendo dall’unico ingresso, quello di una saracinesca che poi si richiudeva per tutto il tempo alle loro spalle. Retribuzione? Un euro all’ora, anche in quella occasione», si indigna Lumino.

 
 
«Gli operatori non solo si ritrovano a svolgere il proprio lavoro in garage e sottoscala ma spesso lo fanno anche senza database o addirittura senza computer. Il più delle volte ai dipendenti viene chiesto di usare i cellulari privati con la promessa di rimborsare i costi delle chiamate in uscita», spiega Lumino. «Le società, quando sono registrate alla Camera di commercio, il che non accade sempre, durano alcuni mesi, il tempo di svolgere la commessa ricevuta. Sfruttano al massimo gli operatori, quindi scompaiono nel nulla come fantasmi per poi riaprire da un’altra parte con un nuovo nome. I pochi dipendenti che hanno trovato la forza di denunciare raccontano di un clima di terrore, fatto di minuti cronometrati anche per andare in bagno, divieto di socializzare fra colleghi, mobbing, minacce e violenza psicologica verso chi avanza il più basilare dei diritti: essere pagati per il lavoro svolto». Lumino racconta anche di una società, al servizio di un grosso gruppo telefonico, che versa ai dipendenti un regolare stipendio, ma, dopo l’accredito, pretende che restituiscano la metà del compenso: una vera e propria tangente per continuare a lavorare», commenta. Come i caporali in agricoltura, forse anche peggio.