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Mario Adinolfi e CasaPound: in hoc signo vinces

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-06-06

Frattaglie elettorali: ovvero la storia dei partiti che dovevano governare Roma e che hanno preso meno voti di un’assemblea di condominio. Ma ovviamente è tutta questione di prospettive: oggi lo zero virgola, nel 2017 al Governo

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Mario Adinolfi non sarà Sindaco di Roma, il Popolo della Famiglia non riesce ad entrare in Consiglio comunale. A fargli compagnia nella lotta dura fuori dal Campidoglio ci saranno Simone Di Stefano e Casa Pound. Per Adinolfi a quanto pare il sostegno di Nostro Signore non è stato sufficiente per vincere le amministrative a Roma. Per Casa Pound invece sembra evidente come le libere elezioni democratiche non siano il modo a loro più congeniale per arrivare al potere. Alla luce dei roboanti proclami della vigilia non si può certo dire che questa tornata elettorale sia stata un successo. E così tra segni della croce e croci celtiche i crociati romani se ne stanno a guardare. Ma loro sono contenti, ah, se sono contenti.
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Gli elettori di Adinolfi confusi tra mettere una croce e farsi il segno della croce

Mario Adinolfi in particolare puntava ad un buon risultato alle amministrative per poter poi puntare alle politiche. Il suo programma per Roma era davvero ambizioso: abolire la 194 e rendere illegale l’aborto. Difficile però farlo con lo 0,60% dei voti. La lista di Mario Adinolfi ha infatti preso 7.223 voti (pari allo 0,62%) mentre il candidato sindaco crociato ha conquistato qualcosina in più, 7.674 voti (0,60%). Ed il suo non è nemmeno il risultato migliore – in termini percentuali – tra quelli degli altri candidati sindaco del Popolo della Famiglia. Anzi, a ben guardare Adinolfi è uno dei candidati che ha ottenuto la percentuale più bassa dei consensi. Questo nella “sua” Roma, dove si è tenuto il giga-mega-raduno del Popolo della Famiglia, dove Adinolfi fa politica da più di vent’anni e dove si è presentato in passato alle elezioni politiche (2008) e alle amministrative (2001). Oggi sul suo profilo Facebook Adinolfi parla di un primo importante passo per il suo partito, e paragona il risultato della sua lista a quello del M5S lasciando intendere che il percorso del PdF sarà simile a quello del partito di Grillo:

Proveranno a dissuaderci, ad attaccarci e ovviamente a irriderci. Copione consueto. Tutte le storie politiche recenti, penso alla Lega di Bossi e al M5S, sono passate attraverso questo rituale. Alle prime uscite si prende un consenso limitato. Se si insiste su un’idea forte e si ha capacità organizzativa, il consenso cresce. Il M5S concorreva a Roma alle amministrative 2011 e si fermò al 2 per cento. Nel 2013 contò di raggiungere il ballottaggio e fallì. Oggi ha il consenso al primo turno del 36% dei romani.

In realtà il M5S non ha davvero corso alle amministrative 2011 perché in quell’anno non ci furono amministrative a Roma. Nel 2008 (quando vinse Alemanno) si presentò invece la lista civica “Amici di Beppe Grillo” una lista di sconosciuti della politica che – praticamente quasi senza il sostegno del Blog – riuscì a conquistare oltre quarantamila voti, pari al 2.64%. Cinque anni dopo, nel 2013, i pentastellati presero oltre il 12% (oltre 130 mila voti). Ieri la lista che sostiene la Raggi ha preso il 35,36% (pari a 405.719 preferenze). La progressione di Adinolfi invece è meno esplosiva. Nel 2001 quando si presentò come candidato sindaco con la lista “Democrazia Diretta Giovani per Roma” (con la @ nel simbolo) Adinolfi prese 1.587 voti personali (lo 0,10%) e 1.543 voti di lista (lo 0,11%). Quindici anni dopo non si può certo dire che come politico abbia fatto così tanta strada. Invece che pensare di essere il M5S il Popolo della Famiglia dovrebbe partire da questi dati reali, molto simili per altro a quello 0,3% preso alle politiche 2008 dal partito tutto casa e Chiesa di un altro pezzo grosso del giornalismo romano, Giuliano Ferrara. Sabato 11 giugno il Popolo della Famiglia terrà un congresso nazionale per decidere a quale candidato offrire il suo decisivo appoggio in vista del ballottaggio.
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Il trionfo di Casa Pound che promette opposizione durissima, da fuori

L’altra sfida senza speranze di Roma era quella della tartarughina frecciata di Casa Pound. Anche questa volta Simone Di Stefano, Vicepresidente di Casa Pound, ha deciso di correre da solo e non in compagnia di Matteo Salvini (che solo l’anno scorso aveva appoggiato il movimento neofasciogentista “Sovranità”). Decisione dettata dal fatto che il Capitano della Lega ha scaricato Casa Pound. Rispetto alle elezioni Regionali in Umbria del 2015 a Di Stefano a Roma è andata meglio, si vede che questa è la sua piazza e che alla fine è più riconoscibile se si presenta con il simbolo di Casa Pound. Anche così però la maggior parte degli elettori non gli ha concesso la sua preferenza, spaventati – forse – dal fatto di dover apporre una croce celtica sulla scheda elettorale. Di Stefano prende un misero 1,14% pari a 14.499 voti (la lista fa un po’ peggio 13.625-1,18%). Ma lui su Facebook ringrazia tutti, anche perché a ben guardare rispetto alle precedenti elezioni comunali a Roma (dove il centrodestra era decisamente più compatto) Casa Pound ha sostanzialmente raddoppiato i consensi (nel 2013 la lista si era fermata a 6.295 preferenze pari allo 0,61%). Una crescita simile a quella che ci si può aspettare dal Popolo della Famiglia, che però punta ad entrare in Parlamento “nel 2017”, come scrive Adinolfi. C’è da chiedersi se alla luce di questi risultati soprendenti davvero, come scriveva qualcuno, la sinistra romana sia davvero finita; contando i voti di Fassina e quelli del Partito Comunista arriviamo ad oltre sessanta mila preferenze, forse l’era di Casa Pound è ancora di là da venire.
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Festeggiano invece i Radicali (in coalizione con Giachetti) che, forti dei loro 13.794 voti sono riusciti a superare Casa Pound di ben 45 preferenze. E non si sono ancora accorti di aver preso il doppio dei voti di Adinolfi, presto stappate lo champagne.
 

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