L'euro irrevocabile e irreversibile

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2017-02-07

Le risposte del governatore della BCE all’ex grillino. La politica che smentisce che ci sia qualcosa di eterno e indissolubile. E le conseguenze di un atto che non è né irrevocabile né irreversibile

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«L’euro è irrevocabile» e nessuno – nemmeno Washington – può accusare la Banca centrale Europea di manipolare il cambio o la Germania di fare svalutazioni competitive. Il ruolo di Mario Draghi è noto e quindi la sua strenua difesa della valuta europea è prevedibile. Ma nelle risposte che ieri il governatore della BCE ha dato all’europarlamentare indipendente ed ex grillino Marco Zanni c’è molto di politico e qualcosa di polemico.

L’euro irrevocabile e irreversibile

Draghi ha citato a sorpresa un rapporto del 14 ottobre scorso nel quale il Tesoro americano precisava che la Germania non manipola la sua moneta e che la Bce non interviene sul mercato dei cambi dal 2011 per rispondere alle accuse di Trump fatte proprie da Zanni. «Le diverse politiche monetarie – ha quindi sottolineato l’economista – riflettono le diverse posizioni nel ciclo della zona euro e degli Stati Uniti». E quando lo stesso Zanni ha proposto di tornare alle monete nazionali, legandole in un serpente monetario, ha regalato una piccola lezione di storia economica: «Abbiamo visto quello che successe negli anni 70 e 80. Non furono certamente anni di stabilità, ma di continue svalutazioni competitive. «Il mercato unico» europeo «non sopravviverà davanti a svalutazioni competitive». Se un banchiere centrale, peraltro molto accorto come Draghi, si spinge così vicino alla soglia invalicabile della politica è perché la preoccupazione è alta, con Trump che medita di inviare a Bruxelles un ambasciatore che ha paragonato l’Ue all’Unione sovietica. E Draghi sente il bisogno di fare fronte comune con Angela Merkel, leader del Paese che è il vero obiettivo degli attacchi americani e che che fronteggia le elezioni a settembre. La cancelliera ha appena rievocato l’ipotesi di un’Europa che proceda a due velocità, idea che Draghi definisce ancora troppo vaga per entrare nel dettaglio ma che pone la minaccia di lasciare indietro chi non è al passo con le riforme. Il presidente della Bce rivendica così la “ripresa solida” dell’Eurozona (1,7% nel 2016, più degli Usa) “diversamente da una percezione diffusa” (e piuttosto accreditata fra i governi della sponda mediterranea). Governi che ricevono anche una bacchettata sul fronte dei conti pubblici, anche questa sintomo della volontà di Draghi di essere compatto con la cancelliera: con gli spread che tornano a salire, dall’Italia al Portogallo alla Francia, “raccomanderei – dice l’italiano – che le politiche di bilancio in tutti i Paesi siano volte a sostenere la ripresa, ma allo stesso tempo in maniera sostenibile. I paesi che non hanno spazio di manovra sul bilancio non dovrebbero cercarlo un modo per trovarlo anche se non c’è”. Una frase che certo non sembra un buon viatico per l’Italia, soprattutto visto che a Bruxelles non tutti danno per scontato il via libera della Commissione.


Stefano Feltri sul Fatto di oggi fa notare che Draghi è l’unico rimasto a difendere pubblicamente l’euro. Ed è evidente che l’uscita così netta è consequenziale al lancio della campagna elettorale di Marine Le Pen e al suo piano per uscire dall’euro che prevede un referendum e ieri ha causato, insieme all’aumento di capitale di Unicredit, la ripresa della corsa dello spread.

L’Italexit e i suoi fardelli

In Italia a sostenere la tesi di Marine Le Pen è il MoVimento 5 Stelle, sostenitore di un referendum che non si può fare anche secondo Gustavo Zagrebelsky, visto che la Costituzione non lo prevede. La Lega ha invece presentato in più occasioni – l’ultima a Milano la settimana scorsa – le sue idee sui piani di uscita dalla valuta unica. Invece è Carlo Calenda a prendersi il fardello della difesa dell’euro oggi in un’intervista sul Roberto Mania di Repubblica:

«Uscire dall’euro vorrebbe dire un gigantesco e istantaneo impoverimento dell’Italia in una misura ben superiore a quella sperimentata nei sette anni della crisi. Fuori dall’euro il debito pubblico, oggi detenuto dalle istituzioni finanziarie e dai cittadini italiani per oltre il 70 per cento, rischierebbe di diventare insostenibile, con effetti immaginabili su famiglie, banche e imprese. Mi pare uno scenario da incubo per fortuna molto lontano. I manuali della Lega “su come uscire dall’euro in dieci facili passi” sarebbero comici se non fossero il sintomo del livello raggiunto da un pezzo della nostra classe politica».
Di chi è la colpa allora se oggi il progetto europeo è visto come una trappola da larga parte degli italiani?
«Ci sono responsabilità condivise. Negli ultimi venticinque anni la classe politica italiana ha scaricato sull’Europa colpe interamente proprie. Ad esempio l’incuria dimostrata verso l’industria e l’economia reale. Per quale ragione la produttività scende solo in Italia mentre nel resto d’Europa cresce? Poi esistono responsabilità dell’Europa: il ritardo nella partenza delle politiche monetarie espansive, la miopia insita nel fiscal compact, la debolezza nella risposta al dumping e così via. L’Unione è disegnata per un’epoca della storia diversa: consensuale, multilaterale e con un’economia strutturalmente in forte crescita. Va ripensata, non affondata».

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Uscire dall’euro: illustrazione di Artefatti

Tuttavia, l’intera storia dell’Europa a più velocità che oggi ricorre nel dibattito ci insegna che i trattati, se c’è la volontà politica, si possono cambiare. La storia delle istituzioni europee nel suo complesso invece ci ricorda che le regole si possono aggirare, superare, dimenticare. A parte le opposte propagande, bisognerebbe poi ricordare che uscire dall’euro è un’operazione complessa e carica di incognite che oggi viene solo spacciata come semplice o conveniente, anche nei report di Mediobanca non letti con la necessaria attenzione. Ciò nonostante l’euro rimane revocabile e reversibile a patto di rendersi conto delle conseguenze economiche e politiche di una scelta del genere. Ricordava ad esempio Stefano Feltri nei blog del Fatto qualche giorno fa:

E’ un po’ ardito, o ingenuo, pensare di scegliere di indebolire i rapporti di cooperazione con gli altri Paesi europei e poi aspettarsi da loro comprensione, apertura, collaborazione. O anche soltanto equa competizione: basta ricordare, en passant, che una delle opzioni per che la Gran Bretagna sta valutando per il post-Brexit è quella di diventare un vero paradiso fiscale in Europa, un classico esempio di politica predatoria. Non ci si può stupire: scegliendo di ridurre i comportamenti cooperativi, si incentivano quelli aggressivi, da legge della giungla.
Il sovrapprezzo della sfiducia – in termini di costo aggiuntivo per il credito pubblico o privato – potrebbe arrivare a compensare i possibili benefici di breve periodo dovuti al tasso di cambio. E postulare, come fa Gawronski, che la domanda aggregata migliorerebbe perché molti disoccupati troverebbero un lavoro. Ma la valuta più debole toglierebbe potere d’acquisto a chi un lavoro già ce l’ha. Siamo sicuri che il saldo finale sarebbe positivo (anche trascurando l’infinita lista di altri fattori da considerare)? Ci vuole un bell’atto di fede.
Quello che Draghi ci ha ricordato è che cancellare l’euro significherebbe rinunciare a molto altro. A tutto quello che vogliamo salvare. I profeti di soluzioni semplici e drastiche sono disposti a rischiare di perdere proprio quel benessere e quei valori che a parole – talvolta in buona fede – dicono di voler difendere.

L’euro insomma non è irreversibile. Sono le conseguenze e i rischi di un’uscita a disegnarlo così.

Leggi sull’argomento: Come si fa ad uscire dall’euro

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