Caporetto, la comoda sconfitta

di Tommaso Giancarli

Pubblicato il 2017-10-24

Se c’è una cosa che piace agli italiani, tutto sommato, sono le sconfitte. Questo è probabilmente il motivo dell’estrema popolarità, anche oggi che compie cent’anni, della disfatta di Caporetto: tanto che quasi non si ricorda che quella sconfitta avvenne all’interno di una guerra che poi fu invece vinta dall’Italia (sebbene sia giusto affermare che, alla …

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Se c’è una cosa che piace agli italiani, tutto sommato, sono le sconfitte. Questo è probabilmente il motivo dell’estrema popolarità, anche oggi che compie cent’anni, della disfatta di Caporetto: tanto che quasi non si ricorda che quella sconfitta avvenne all’interno di una guerra che poi fu invece vinta dall’Italia (sebbene sia giusto affermare che, alla fine dei conti, i guadagni di quella vittoria furono scarsi e dubbi e certo non valsero le seicentomila e più vite sacrificate ad essa). All’interno della categoria delle batoste, poi, quelle che maggiormente piacciono sono quelle che non hanno responsabili o che, se ne possiedono, ne hanno soltanto di troppo lontani, difficili da identificare o da inchiodare a qualsivoglia responsabilità. E Caporetto è un esempio abbastanza chiaro di questa categoria, sia che ci si rapporti alla battaglia dalla parte dei critici di Cadorna (così come dei suoi esaltatori, insieme che poi si riduce allo stesso Cadorna), sia che lo si faccia da quella dei germanofili o anti-italiani.
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I primi hanno infatti gioco facile a scaricare sul grande accentratore, sordo a qualsiasi critica e creatore di una gerarchia militare composta quasi soltanto di suoi accoliti e favoriti, le incredibili mancanze dell’esercito nei giorni dell’offensiva austro-tedesca, dall’incapacità di svolgere un elementare servizio di spionaggio (nonostante disertori e prigionieri avessero fornito informazioni, che si sarebbero poi rivelate corrette, sull’imminenza dell’offensiva e sulle sue direttrici), passando per il silenzio delle potentissime artiglierie schierate a ridosso della prima linea e che fino a poche settimane prima avevano terrorizzato le truppe imperiali sull’Isonzo, per finire con gli stretti e ben conosciuti varchi, su cui effettivamente sarebbero passati i tedeschi avanzanti, lasciati sguarniti e indifesi. Ma costoro non dicono che Cadorna non fu, se non raramente, un censore o un acerrimo nemico dei propri subordinati (e peraltro, quando invece decise di destituire qualcuno, lo fece di solito a ragion veduta; il che non significa che anche in questi casi non ci fosse la solita ipocrisia dei comandi superiori che sostituiscono un inferiore difettoso per non vedere anche le proprie colpe): semmai la colpa di Cadorna fu quella di aver creato dei perfetti cadorniani, i quali non avevano bisogno in alcun modo di essere spinti o costretti a sbagliare, perché da soli commettevano disastri. Fu infatti Badoglio, che pure avrebbe compiuto la sua bella carriera, il responsabile degli ordini confusi e contraddittori che in pratica impedirono all’artiglieria di sparare un colpo sui nemici in movimento; come fu Capello colui che lasciò in uno schieramento assurdamente offensivo le proprie truppe, destinate a venir sorpassate e accerchiate in poche ore. Mentre l’incapacità di creare un sistema di comunicazione e di informazioni efficiente – non mancò solo lo spionaggio; vennero meno anche gli ordini alle nostre truppe -, di certo aggravato dal contegno personalistico di Cadorna, non fu comunque creato da lui.
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Allo stesso modo, i secondi possono semplicemente trasformare la sconfitta dell’Italia in una vittoria dell’impero austro-ungarico e soprattutto della Germania, facendo notare come Caporetto si spieghi soprattutto con la differenza di tattiche e di efficienza dei due eserciti contrapposti: agli italiani abbarbicati sulle montagne conquistate negli anni a forza di assalti frontali, e rintanati nelle trincee e nei ripari scavati nella roccia, stanno di fronte i reparti nemici piccoli e ben armati, guidati da ufficiali audaci e ispirati da comandanti flessibili, che cercano i luoghi di minore resistenza, vi si infiltrano, passano oltre rendendo inutili e già morti i nidi d’aquila e i bunker delle prime linee. Ma, di nuovo, anche questi ultimi dimenticano che già prima di Caporetto gli italiani avevano creato i propri Arditi; o che, come la brigata Sassari o la Firenze sulla Bainsizza (ad agosto-settembre 1917; poco più di un mese prima di Caporetto), c’erano stati casi di attacchi italiani basati sul principio di gruppi limitati di assalto, coronati da successo. Non è dunque che gli italiani fossero inferiori ai loro nemici, o meno intelligenti e pronti; mancava l’incoraggiamento da parte dei comandi, e soprattutto la prontezza da parte di questi ultimi nello sfruttare i vantaggi ottenuti grazie al coraggio e all’audacia dei soldati e dei sottufficiali.
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D’altra parte la prima guerra mondiale, assolutamente non necessaria in linea di principio e assurda se iniziata a maggio 1915, quando già si vedeva cosa quel conflitto stava significando e comportando, il nostro paese non l’aveva principiata col piglio giusto o fortunato. Pur con dieci mesi di organizzazione alla guerra, dieci mesi in cui intanto l’esercito austro-ungarico veniva sonoramente battuto dai serbi e non incontrava sorte tanto migliore coi russi, l’esercito italiano riesce nell’impresa di entrare in guerra ancora più sfornito e impreparato; ciononostante decide – o gli viene intimato – di passare a un’offensiva generale, in sostanza correndo in salita contro posizioni imprendibili, e mancando perfino dei mezzi per sfondare i reticolati nemici. Il fatto incredibile è che, date queste deliranti premesse, le truppe italiane riescono pian piano in due anni a rosicchiare, con perdite ingenti, qualche territorio agli imperiali, arrivando a settembre 1917 fino alle porte di Trieste. Le stragi insensate e le conquiste misurate in decine di metri sono, d’altronde, la norma anche per gli altri soldati dell’Intesa sul fronte occidentale (benché francesi e inglesi abbiano numeri e risorse maggiori e soprattutto un terreno assai meno sfavorevole). I soli russi mostrano una maggiore capacità o fortuna, ma a che costo lo si vede chiaramente quando alla stazione Finlandia di Pietrogrado arriva, con la complicità tedesca, un certo Lenin.
luigi cadorna caporetto
In conclusione, che sia per accusare i nostri militari (non conta in questa sede se i loro vertici incapaci o i soldati vili) o per assolverli in quanto inferiori ai nemici dotati della ben nota efficienza germanica, le spiegazioni per Caporetto ruotano intorno a una qualche mancanza delle forze armate; istituzione che in Italia ha scarsa reputazione e storia ormai più che secolare di capro espiatorio – pensiamo alla Terza Guerra d’Indipendenza, dove due scaramucce perse passano per un disastro nazionale (e, oltretutto, Lissa sarebbe stata una vittoria chiara se solo Persano si fosse attenuto all’abitudine usuale sui campi di battaglia di inseguire il nemico in fuga). E tuttavia un’analisi più accurata mostra che la maggior parte delle mancanze – le offensive inutili, l’entrata in guerra senza preparazione, la prevalenza della piaggeria sulla professionalità – attengono più alla sfera delle pressioni indebite che a quella strettamente militare; è più, insomma, responsabilità della politica che delle armi. Ma il nostro è uno strano paese, in cui dei politici si parla sempre male ma di politica non si parla mai; e giusto pochi anni dopo Caporetto questa rimozione collettiva portò al trionfo di un movimento che si faceva vanto del “non parlare di politica”, e che – la storia, si sa, si ripete come farsa – avrebbe presto avuto modo di affibbiare alle nostre armi i disastri causati dal proprio malgoverno avventurista e brigantesco.

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