Amedeo Mancini e l'omicidio di Fermo

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-07-08

«Tira le noccioline quando vede un negro, ma lo fa per scherzare», racconta il fratello alla Stampa. La versione contrastante dei testimoni. I magistrati: «Veemenza ingiustificata, un soggetto pericoloso per effetto della sua natura aggressiva e violenta»

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Di solito Amedeo Mancini «tira le noccioline, quando vede un negro, ma lo fa per scherzare perché è un allegrone, ha avuto una vita difficile e a 39 anni non può neppure andare allo stadio: è diffidato». A modo suo Simone Mancini, fratello dell’uomo accusato di omicidio preterintenzionale per la morte di Emmanuel Namdi a Fermo, lo difende in un articolo della Stampa a firma di Paolo Crecchi.

Amedeo Mancini e l’omicidio di Fermo

Secondo il difensore del 39enne ultrà della Fermana, l’avvocato Francesco De Minicis, l’episodio si sarebbe svolto in tre fasi: le offese alla ragazza, l’aggressione da parte di Emmanuel all’italiano, che avrebbe reagito, colpendolo con un pugno al volto. Una dicotomia che sembra riflettere le reazioni in città, tra chi definisce Mancini, da sempre simpatizzante di estrema destra, un uomo aggressivo, ma buono d’animo, insomma “uno di noi” e chi, invece, lo ritiene una mina vagante. Un quadro che fa osservare a don Vinicio che il fatto, così come gli attentati con ordigni esplosivi alle chiese di Fermo, rientra in “un magma di violenza, frustrazione, esibizionismo”, in parte coperti e tollerati da “un clima melmoso”. Due diverse descrizioni di Amedeo Mancini girano tra amici e giornali. Da un parte c’è l’uomo dal fisico imponente (ex pugile), di simpatie di destra e con un passato complesso (pluripregiudicato, raggiunto da Daspo anni fa per intemperanze nella curva ultras della Fermana), ma fondamentalmente ”buono d’animo”, e pronto a menare le mani, sì, ”ma per mandare via gli spacciatori da piazza del Popolo” racconta un barista. Insomma “uno di noi, un figlio nostro” dice anche una signora. Che ha avuto la sfortuna di incappare in qualcosa di più grande di lui e ha provocato, c’è chi dice senza volerlo, la morte di un immigrato nigeriano di 36 anni, richiedente asilo. Un imprenditore agricolo, che alleva tori e vive con un fratello, che sembra avere lasciato alle spalle il tifo esasperato, anche se continua frequentare lo stadio. L’altro ritratto invece è quello di un uomo spesso aggressivo e provocatorio, che già altre volte ha insultato migranti e neri, spesso nervoso, a volte ubriaco. Una mina vagante, che aspettava solo di esplodere e fare danni.

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Amedeo Mancini e l’omicidio di Fermo (La Stampa, 7 luglio 2016)

Andrea Fiorenza è l’uomo che si trovava con Amedeo Mancini al momento dei fatti: fa sapere che l’avvocato (di chi?) gli ha detto che non può parlare con i giornalisti. Il fratello Simone in ogni caso a modo suo lo difende:

Vive con lui in un abituro, in mezzo ai campi di girasole, e giura che «diventa violento solo se lo vai a cercare». E l’insulto alla signora? «Boh, quei due potevano starsene. Mica li abbiamo chiamati noi in Italia». […]
Dice Simone Mancini: «Lo hanno già condannato, e allora chissà se fosse capitato a me che sono stato in galera per spaccio di droga. La verità è che ci facciamo un mazzo quadrato per tirare avanti, io a stampare suole di scarpe in fabbrica e lui a lavorare a giornata in campagna: raccoglie cipolle, taglia la legna». L’amico d’infanzia Sandro Rossi giura che è stato un equivoco. «Probabilmente voleva scherzare. Amedeo non è razzista, ha anche un amico del cuore maghrebino. E con me è stato generosissimo: se non mi sono ammazzato dieci anni fa, quando la ragazza mi ha mollato, lo devo a lui».[…]
Amedeo Mancini «è sempre stato comunista: come fa a essere razzista?», lo difende il fratello, azzardando un’equazione insensata come la sua analisi politico-sociale: «Gli immigrati rubano. Non è giusto che le leggi italiane li difendano. Noi dovremmo venire prima», e almeno non facessero i permalosi: «Una battuta, via…».

Ma la parte più interessante dell’articolo è la testimonianza della parrucchiera Pisana Bacchetti, che – com’era prevedibile – è ancora diversa da quella pubblicata ieri dal Resto del Carlino che ne faceva una “supertestimone”:

La parrucchiera Pisana Bacchetti arriva che la rissa è già cominciata, «ero in macchina e non so dire chi abbia cominciato. C’era il nigeriano con un palo della segnaletica stradale in mano, blu con la freccia bianca. Ha colpito Amedeo allo stomaco, e poi glielo ha tirato addosso quando è caduto. Anche la ragazza picchiava. Mordeva. L’altro giovane cercava di separarli ma non c’è riuscito. Amedeo si è rialzato e ha colpito il nigeriano con un pugno. Quello è caduto. Ha sbattuto la testa sul marciapiede. Ho chiamato io la polizia».

I testimoni: Pisana Bacchetti e Andrea Fiorenza

Da ieri, o da oggi, di fronte all’arresto e a una bordata di condanne, c’è una terza versione della stessa persona: quella dell’uomo dal passato complicato, o più semplicemente del bullo di paese, che si dispera per la morte di un innocente, nega di essere di estrema destra o di avere prevenzioni razziali. Oggi – racconta il suo legale, l’avv. Francesco De Minicis – si dice “distrutto dal dolore”, dispiaciuto per l’insulto “scimmia africana” rivolto alla compagna di Emmanuel, una frase da cui sarebbe partita la lite. La sua versione è diversa da quella della giovane donna rimasta vedova, e lo vede in posizione difensiva, di reazione all’aggressione del 36enne nigeriano. Ma tutte e tre le versioni rispecchiano perfettamente quel ‘clima’, quel “contenitore di un magma di violenza, frustrazione, esibizionismo” che secondo Don Vinicio Albanesi accomuna tante persone e che spinge al rancore e alla diffidenza per chi è diverso. Giusi Fasano sul Corriere dipinge ancora un altro ritratto:

Classe 1977, una vita da ultrà della Fermana e la fama di chi non soltanto è violento ma se ne vanta, magari mostrando i muscoli guadagnati con il continuo allenamento da pugile o contando sul suo metro e novanta di altezza e sulla stazza imponente. Per guadagnarsi da vivere, Mancini fa l’imprenditore agricolo, come si definisce lui stesso: alleva tori in un’azienda alle porte di Fermo. Al suo avvocato, Francesco De Minicis, ha detto ieri che lui è «dispiaciutissimo» per quello che è successo, ma che però sia chiaro: «Non si dica che io odio i rifugiati perché non è vero. Non me la sono mai presa con nessuno di loro. Quel tizio mi ha tirato addosso il cartello stradale e io mi sono difeso. Non volevo ammazzarlo». E quell’insulto, «africans scimmie»? Lui lo spiega come se fosse un’espressione normale: «Roba che si urla negli stadi», appunto. E pazienza se qualche volta scappa anche lontano dalle curve della tifoseria armata di cattive intenzioni. Chi lo conosce giura che la sua vera vita è fra quella gente, a urlare parolacce e bestemmie, a fare gestacci e a giurare vendetta dopo il fischio finale. Ma lui oggi dice che non è colpa sua se le cose sono andate come sono andate. Ha insultato, è vero, però «quello ha cominciato a menare per primo tirandomi addosso il cartello stradale».

E aggiunge un dettaglio che riguarda le indagini:

Peccato, però, che gli inquirenti aggiungano un dettaglio che Mancini tace. E cioè che dopo averlo colpito e averlo fatto cadere, Emmanuel se ne stava andando. Per lui era la fine della rissa, «aveva abbassato le proprie difese», per dirlo con le parole del provvedimento di fermo. E invece no. Mancini l’ha rincorso e gli ha sferrato un pugno con tutte le sue forze. Lui è caduto ed è rimasto lì immobile, così raccontano i testimoni. Scrivono gli inquirenti: «La veemenza della condotta di Mancini è assolutamente ingiustificata (…) causata da stimoli del tutto sproporzionati e banali rispetto alla gravità del fatto». E, per entrare più nel dettaglio: un «soggetto altamente pericoloso per effetto della sua natura violenta e aggressiva».

Su Repubblica si riporta anche la versione di altri due testimoni, due donne che da diverse prospettive hanno assistito all’omicidio, e che “raccontano entrambe di una lite animata e di colpi reciproci: Emmanuel, nel loro racconto, «sferrava colpi tipo mosse di karate, e la donna colpiva quest’ultimo con le scarpe urlando “chi scimmia?… Chi scimmia?». Dopodiché, riferisce agli inquirenti, sarebbe stato Emmanuel a prendere «un cartello stradale munito di pedana e zavorra e, dopo averlo sollevato, a spingerlo contro l’altro uomo colpendolo a una spalla e facendolo cadere». È a quel punto che Mancini, rialzatosi, lo avrebbe steso con il suo gancio”.

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