Ve la ricordate Justine Sacco?

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2015-02-14

Sicuramente lei si ricorda di voi, così come i molti che hanno condiviso il suo destino: pubblica gogna, eterna colpevolezza, a volte licenziamento

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Quella che nel dicembre 2013, poco prima di salire su un aereo per il Sudafrica, scrisse: «Going to Africa. Hope I don’t get AIDS. Just kidding. I’m white!». Quella che nel giro di qualche ora è stata travolta dai commenti e dagli insulti, e poi licenziata. Quella che, senza dubbio, ha avuto una delle peggiori esperienze nel riaccendere il telefono dopo le 11 ore di volo: mail, notifiche, telefonate, messaggi. L’onda anomala dell’indignazione dai divani di tutto il mondo.
Qui c’è un’anticipazione del libro So You’ve Been Publicly Shamed, di Jon Ronson (How One Stupid Tweet Blew Up Justine Sacco’s Life). Ronson non racconta solo la storia di Sacco, ma di altre persone finite più o meno a ragione al centro di una ferocia collettiva (come la ragazza che si vestì da vittima della maratona di Boston scatenando le ire funeste delle vere vittime e di tutti gli altri).

Alicia Ann Lynch
Alicia Ann Lynch

Persone che magari avevano fatto una battuta (privata, forse pessima, forse solo scema) e che si sono trovati esposti alla gogna universale, spesso licenziati (quasi sempre l’enormità delle conseguenze stonano con la gravità della colpa). La consolazione è che l’indignazione universale, seppure potenzialmente immortale, ha vita breve. Dopo un bersaglio si passa subito a quello successivo. Ma per chi vuole cercare le tracce di un eventuale misfatto la rete offre una memoria indelebile (Sacco invita a pensare a che effetto fa uscire con qualcuno e passare per la prova Google dopo quanto le è accaduto – peggio della prova costume. L’unica soluzione parrebbe cambiare nome, città e paese non basta).
Photo illustration by Andrew B. Myers. Prop stylist: Sonia Rentsch
Photo illustration by Andrew B. Myers. Prop stylist: Sonia Rentsch

Non è solo che può capitare di dire e scrivere cose sceme e inopportune, ma il margine di incomprensione del testo e del contesto, la possibilità che chi ci legge o ascolta non colga il sarcasmo o l’ironia (ripeto, magari la maggior parte delle nostre battute fa ridere solo noi), il rischio di prendere alla lettere quello che vorrebbe non essere tale – ecco, tutto questo è così probabile da far venire voglia di chiudere per sempre qualsiasi cosa comporti il rischio di esporci al giudizio altrui. Certo chiunque abbia confidenza con i social sa quanto siano dannosi gli effetti dell’andropausa e della pressoché totale assenza del senso del ridicolo. Ma, come scrive Ronson, a volte il rinculo è davvero esagerato (e chiedere scusa non basta).

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