Valentina Milluzzo: la donna incinta morta all'ospedale di Catania e il medico (non) obiettore

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2016-10-20

Il medico di turno si sarebbe rifiutato di operare con un aborto perché obiettore: “Fino a quando è vivo io non intervengo”, avrebbe detto loro. La garanzia del servizio di IVG sarebbe un obbligo (uno dei doveri professionali di chi ha scelto di lavorare nell’ambito della riproduzione umana) conseguente a una libera scelta professionale. Ma succede tutt’altro

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Valentina Milluzzo, di 32 anni, al quinto mese di gravidanza grazie alla procreazione assistita, sarebbe diventata mamma di due gemelli tra pochi mesi ma è invece morta insieme ai piccoli all’ospedale Cannizzaro di Catania. Francesco Castro, il marito, tramite l’avvocato Salvatore Catania Milluzzo, ha presentato un esposto alla procura per accertare «se ci siano state negligenze, o imprudenze, imperizie diagnostiche o terapeutiche dei sanitari che hanno avuto in carico la paziente».

Valentina Milluzzo: la donna incinta morta all’ospedale di Catania

È accaduto tutto il 29 settembre scorso: la donna era stata ricoverata  per una dilatazione dell’utero anticipata e si è spenta dopo che aver partorito morti i suoi due gemellini. Per il legale «un medico obiettore di coscienza non è intervenuto subito sui feti che mostravano difficoltà. Non so se sia corretta la presenza di un solo dottore, per di più obiettore». La procura ha aperto un’inchiesta, affidata al pubblico ministero Fabio Saponara, come racconta Giorgio Ruta su Repubblica:

Secondo il racconto del marito, Valentina sabato mattina ha avuto una febbre, le è stato dato un farmaco e dopo poco ha iniziato a sentirsi male: dolori lombari, vomito, collassi. «I familiari raccontano che nulla è stato fatto per molto tempo. La madre ha trovato Valentina priva di sensi intorno alle 19», spiega l’avvocato. La situazione peggiora ben presto, la temperatura della donna e la pressione si abbassano. Un feto ha problemi di ossigenazione, «ma il medico di turno, mi dicono i familiari presenti, si sarebbe rifiutato di operare con un aborto perché obiettore: “Fino a quando è vivo io non intervengo”, avrebbe detto loro.
Nasce già morto il primo piccolo. Dopo poco la scena si ripete con il secondo», dice il penalista Catania Milluzzo. A questo punto la donna, sconvolta dal dolore, viene sedata e gli viene asportata la placenta. I familiari riferiscono di averla vista con dei cerotti sulle palpebre che le chiudevano gli occhi. «Aveva un’infezione estesa in buona parte del corpo e così viene trasportata in rianimazione». E lì che Valentina, impiegata di banca, muore alle 14 di domenica.

 

L’agenzia di stampa ANSA fa sapere però che dai primi esami sulla cartella clinica non risulta che il medico dell’ospedale Cannizzaro si sia dichiarato obiettore di coscienza. Il dato, ritenuto di una certa importanza dalla Procura di Catania. Per i magistrati, quindi, la ricostruzione dei familiari della vittima “al momento non trova alcun riscontro” in un atto ufficiale e documentale, qual è la cartella clinica. In ogni caso, sarebbe stato poi necessario stabilire un rapporto di causa ed effetto tra la morte dei due feti e quella della puerpera con la presunta, e non accertata, dichiarazione di obiettore di coscienza del medico intervenuto. Nella denuncia, depositata in procura dal legale della famiglia, l’avvocato Salvatore Catania Milluzzo, si riporta, tra l’altro che quando la donna il 15 ottobre scorso entra in crisi “dai controlli emerge che uno dei feti respira male e che bisognerebbe intervenire, ma il medico di turno si sarebbe rifiutato perché obiettore: ‘fino a che è vivo io non intervengo’, avrebbe detto loro”. La stessa cosa avrebbe ripetuto, secondo l’esposto, sul secondo feto: “lo avrebbe fatto espellere soltanto dopo che il cuore avesse cessato di battere perché lui era un obiettore di coscienza”.

I medici obiettori dell’aborto

Dei medici obiettori abbiamo parlato in molte occasioni.  La garanzia del servizio di IVG sarebbe un obbligo (uno dei doveri professionali di chi ha scelto di lavorare nell’ambito della riproduzione umana) conseguente a una libera scelta professionale, e nulla ha a che fare con l’obbligo di leva. Per alcuni, è anche una scelta ipocrita: molti obiettori continuano a suggerire e a eseguire diagnosi prenatali, tirandosi però poi indietro se la decisione della donna è di interrompere la gravidanza. Spesso senza nemmeno indicare loro un medico non obiettore – come la legge dice e come la coscienza medica e personale dovrebbe suggerire – ma dicendo: «Sono obiettore, non posso intervenire». È bene sapere che le donne che chiedono o accettano di eseguire indagini prenatali sono in genere donne che vogliono poter scegliere. Quelle che invece sono convinte che non interromperebbero mai una gravidanza, anche in presenza di patologie fetali importanti, non vogliono sapere. Non vogliono eseguire diagnosi prenatali, non solo perché presentano un rischio di aborto, ma soprattutto perché quell’informazione non ha senso, e non la vogliono. «Sapremo al parto», dicono. Se è indubitabile che l’obiezione di coscienza sia un diritto, è altrettanto indubitabile che la suddetta affermazione abbia un significato ambiguo, strettamente vincolato al contesto. Cosa intendiamo per obiezione di coscienza? Quella contra legem del militare, o quella intra legem del ginecologo? Quella che rivendicava una scelta individuale, o quella addomesticata e risucchiata dalla legge? E perché è stata usata la stessa espressione, perché non chiamare opzione o facoltà l’esonero concesso dalla 194, visto che non si oppone ad alcun obbligo, ma è anzi regolata dalla norma stessa? Inoltre dobbiamo ricordare che nessun diritto è assoluto, ma dipende dagli altri diritti con cui può entrare in conflitto – in questo caso la garanzia del servizio di IVG – e con i doveri professionali. La 194, pur prevedendo la possibilità di ricorrere all’obiezione, traccia confini abbastanza intelligibili e stabilisce la gerarchia da seguire: prima la richiesta della donna, poi la coscienza dell’operatore sanitario. Tuttavia, questi confini sono violati sempre più spesso e con una inspiegabile strafottenza. C’è infine un’altra conseguenza: isolare l’IVG, allontanarla dal dominio della salute riproduttiva. Renderla un’eccezione, una questione più morale che medica, una questione di coscienza – come se solo i ginecologi avessero una coscienza.

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Fonte: www.internazionale.it

Numeri e conseguenze dell’obiezione

Questo è il vizio di nascita dell’obiezione di coscienza in ambito sanitario: assorbita dal diritto positivo, somiglia sempre più all’esercizio di un privilegio. Secondo l’articolo 9, gli operatori sanitari possono essere esonerati «dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento». Inoltre «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8». L’obiezione di coscienza «non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo». Come dicevo, i confini dell’esercizio dell’obiezione di coscienza sono abbastanza netti. Il servizio IVG dovrebbe essere sempre garantito, la legge lo colloca su un gradino più alto della coscienza degli operatori sanitari, è illegale che in una struttura non vi sia la possibilità di abortire e in alcune circostanze l’obiezione decade. La cronaca ci rimanda spesso una realtà diversa: donne lasciate ore in attesa, spostate, mandate via, insultate, lasciate soffrire perché “se lo meritano”. La prima evidenza sulla 194 è che una legge che stabilisce un servizio e contemporaneamente ne indica gli strumenti di sabotaggio è una legge intimamente contraddittoria e a rischio – una legge che nel 1978 non poteva che essere scritta così, considerato che chi aveva scelto la specializzazione di Ginecologia e Ostetricia l’aveva fatto quando non era permesso interrompere una gravidanza. La seconda è la disapplicazione dell’articolo 9. La contraddizione rappresentata dall’articolo 9 è resa più dannosa dall’applicazione sempre più disinvolta e numerosa dell’obiezione di coscienza. I numeri ufficiali rimandano un aumento costante negli anni e che ha raggiunto livelli di palese illegalità. La relazione ministeriale sull’applicazione della 194 del 2013 conferma una media nazionale che supera il 70% di ginecologi obiettori, ma la realtà è ancora più insoddisfacente quando la guardiamo da vicino. La Laiga, la Libera Associazione Italiana Ginecologi per Applicazione legge 194, ha declinato quei numeri, raccontando un quadro ben più drammatico di quello del Ministero. Secondo i dati ufficiali, nel 2012 le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 105.968: sono diminuite del 4,9% rispetto alle 111.415 del 2011. La diminuzione è più evidente se si considera che nel 1982 sono state eseguite 234.801 IVG, con un decremento del 54,9%. Il tasso di abortività, cioè il numero di interruzioni volontarie di gravidanza per 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2012 è di 7,8 per 1.000, con un decremento dell’1,8% rispetto al 2011 e del 54,7% rispetto al 1982. È uno dei valori più bassi dei paesi industrializzati. È dal 1983 che il numero delle IVG diminuisce costantemente e relativamente a tutti i gruppi di età, minorenni comprese (nel 2011 il tasso è stato di 4,5 per 1.000). Diminuiscono anche le interruzioni ripetute e quelle dopo i primi 90 giorni. Le donne straniere costituiscono un terzo delle IVG totali, ma la diminuzione si comincia a osservare anche in questo dominio. Volgendo l’attenzione all’obiezione di coscienza si osserva il fenomeno opposto. Negli ultimi 30 anni l’aumento è stato del 17,3%. Dovremmo ricordare il contenuto dell’articolo 9 ogni volta che veniamo a sapere di una interruzione volontarie di gravidanza negata o resa quasi impossibile. Dovremmo ricordarcene e definire l’accaduto come omissione di pubblico servizio e non come una manifestazione di “coscienza”. A questo proposito, una recente nota della Cassazione penale ha confermato l’ovvio: «Integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del medico in servizio di guardia che, richiesto di assistere una paziente sottoposta ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza, si astenga dal prestare la propria attività nelle fasi antecedenti o successive a quelle specificamente e necessariamente dirette a determinare l’aborto, invocando il diritto di obiezione di coscienza, attesi i limiti previsti dall’art. 9 legge 22 maggio 1978, n. 194, all’esercizio di tale facoltà. (In applicazione del principio, la Corte, in relazione ad una interruzione di gravidanza indotta per via farmacologica, ha affermato che l’esonero da obiezione di coscienza è limitato alle sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi, ma non si estende alle fasi “conseguenti”). In tema di rifiuto di atti di ufficio, il carattere di urgenza dell’atto ricorre nel caso del medico in servizio di guardia che sia richiesto di prestare il proprio intervento da personale infermieristico e medico con insistenti sollecitazioni, non rilevando che il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva».

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Fonte: www.internazionale.it

Lo scenario reale 

Il comunicato che accompagna la relazione ministeriale sembra essere animato da un eccessivo ottimismo, una visione che rischia di essere ingenua o menzognera rispetto alla presunta “equa distribuzione”: il numero di IVG pro capite e per anno si è dimezzato, perciò anche se il numero di obiettori ha di molto superato quello dei medici che garantiscono il servizio IVG7 non ci sarebbe poi molto da preoccuparsi. «I numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi di IVG. Eventuali difficoltà nell’accesso ai percorsi IVG sembrano quindi dovuti ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. In collaborazione con le Regioni, il Ministero delle Salute ha avviato un monitoraggio a livello di singole strutture ospedaliere e consultori per verificare meglio le criticità e vigilare, attraverso le Regioni, affinché vi sia una piena applicazione della Legge su tutto il territorio nazionale, in particolare garantendo l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei singoli operatori sanitari che ne facciano richiesta e, al tempo stesso, il pieno accesso ai percorsi di IVG, come previsto dalla Legge, per le donne che scelgano di farvi ricorso». Beatrice Lorenzin dice che è la prima volta che il monitoraggio sul territorio «arriva fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio», ma dimentica di specificare che nei consultori non si dovrebbe discutere di obiezione di coscienza perché non si eseguono IVG. L’ottimismo sembra voler cancellare o ignorare le difficoltà vissute da molte donne in questi anni, e quelle dei pochi medici che cercano di garantire il servizio IVG: «I dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza  e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace. Stiamo lavorando per verificare, insieme alle Regioni, la presenza di eventuali criticità locali per giungere al più presto al loro superamento». Non si parla di obiezione “di struttura”, che è illegale ma è di fatto esercitata da alcuni ospedali, privi del reparto IVG e della possibilità di eseguire una IVG, invisibili alla rilevazione: in un ospedale in cui non c’è il reparto IVG non c’è nemmeno bisogno di dichiararsi obiettore di coscienza. Non si dice nulla dell’impossibilità di scegliere tra l’aborto chirurgico e quello medico, ovvero la RU486 (la possibilità di assumere la RU486 è limitata da regolamenti regionali che impongono il ricovero e la sua commercializzazione in Italia è stata accolta da un’isteria diffusa e che non s’è ancora sedata. A parte alcune regioni virtuose – come la Toscana e l’Emilia Romagna – la RU486 è scarsamente disponibile a ben 4 anni dal suo arrivo in Italia. Non è difficile intravedere una ragione ideologica. Facilitare l’accesso all’IVG farmacologica significherebbe ridurre le liste di attesa, facilitare il servizio, sgonfiare il potere dell’obiezione di coscienza usata come arma per impedire e controllare. La scusa ufficiale è bizzarra: le donne sarebbero lasciate da sole. Per non lasciarle sole, si impedisce loro di scegliere), né dell’assurdo e illegale richiamo all’obiezione di coscienza rispetto alla contraccezione d’emergenza (alcuni calcando erroneamente sulla natura “abortiva” della contraccezione d’emergenza) o, come già detto, all’obiezione invocata nei consultori familiari. Non ci si sofferma sulle profonde differenze – nella garanzia del servizio – da regione a regione, da città a città, che ha reso un servizio tanto dipendente da chi ti capita di incontrare in ospedale. Il monitoraggio è una buona notizia, ma la difficoltà verosimilmente non starà tanto nel sapere come l’IVG non è applicata in Italia, ma nell’indicare le possibili soluzioni per far fronte alla sempre più eterogenea e difettosa garanzia della 194. Lo scenario reale sembra essere però peggiore di quello descritto dal Ministero e connotato da particolari che la relazione non rileva. La Laiga ha raccolto i dati telefonando alle singole strutture (potremmo anche chiederci per quale motivo non esiste già un registro dettagliato degli obiettori di coscienza). Ecco alcuni dati. Nel Lazio, in 10 ospedali su 31 non esiste il servizio IVG. Alcuni centri pubblici non eseguono IVG, come l’Ospedale Civile di Tarquinia e il San Benedetto di Alatri. In Lombardia, in 37 su 64. Tra gli ospedali con i numeri più alti di obiettori di coscienza ci sono: OO. Riuniti Borgomanero (Novara), con 10 obiettori su 11; San Gerardo (Monza), 21 su 23; Ospedale Civile (Como), 18 su 20; Ospedali Civili Riuniti (Venezia), 8 su 10; A.O. Villa Scassi (Genova), 12 su 15; Policlinico Umberto I (Roma), 39 su 40; Università Napoli (Napoli), 57 su 60; Ospedale Fazzi (Lecce), 18 su 21; Ospedale Civile (Cosenza), 15 su 16. Negli Ospedali Civili di Bosa, Ozieri e Businco (Sardegna) tutti i ginecologi sono obiettori di coscienza. L’alto numero di obiettori significa non solo allungare i tempi di attesa, ma complicare l’accesso soprattutto in alcune circostanze. Come nelle città piccole, ove magari c’è un solo ospedale ma nessun reparto di IVG. L’obiezione di struttura, vietata dalla 194, è insomma una realtà molto praticata. Le interruzioni tardive sono ancora più difficili: non solo clinicamente il quadro è più rischioso, ma sono ancora meno le strutture in cui si possono eseguire e i medici in grado e disposti di eseguirle. Chi vive in una delle province del Lazio deve andare a Roma. C’è uno spostamento da regione a regione, e c’è anche uno spostamento verso altri paesi. Per chi può permetterselo. Le altre si arrangiano. Al Parlamento europeo è stata discussa una proposta di risoluzione dal titolo «Sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi» (A7-0306/2013). La relatrice, Edite Estrela, si è soffermata sulla non garanzia del servizio di IVG. Sia in paesi con leggi restrittive, sia in paesi con leggi permissive che finiscono per essere svuotate di senso e garanzie dall’esercizio smodato dell’obiezione di coscienza. «Si osservi che sempre più spesso vengono imposti ostacoli ai servizi per l’aborto in paesi che hanno leggi permissive in materia. […] La pratica dell’obiezione di coscienza ha negato a molte donne l’accesso ai servizi di salute riproduttiva, per esempio a informazioni, all’accesso e all’acquisto di contraccettivi, a visite prenatali e all’interruzione legale della gravidanza. In Slovacchia, Ungheria, Romania, Polonia, Irlanda e Italia sono stati segnalati casi in cui quasi il 70% di tutti i ginecologi e il 40% degli anestesisti oppongono l’obiezione di coscienza alla possibilità di eseguire aborti. Questi ostacoli sono evidentemente in contrasto con le leggi sui diritti umani e con le norme mediche internazionali». E sugli anestesisti si pone anche un’altra domanda: la loro attività può davvero essere considerata tra quelle “direttamente volte a”? La stessa domanda può essere sollevata per tutti gli altri, ginecologi esclusi. E se state pensando “però la responsabilità morale”, dovremmo allora chiederci dove è giusto fermare la catena causale della complicità. Al tassista? All’accettazione? Al portiere dello stabile in cui vivi?

obiettori di coscienza in italia
Fonte: www.salute.gov.it

Leggi sull’argomento: Aborto: c’è chi dice no

Foto copertina da: Repubblica

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