«Un piano di investimenti per evitare la stagnazione»

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-03-01

Fabrizio Saccomanni, ex ministro del Tesoro, torna a sollecitare l’intervento pubblico in Europa. Qualcuno lo ascolterà?

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Fabrizio Saccomanni, economista di lungo corso, a lungo direttore generale di Bankitalia, quindi predecessore di Padoan al Tesoro e oggi docente alla Luiss-Sep (School of european political economy), a colloquio con Eugenio Occorsio su Repubblica chiede un piano di investimenti pubblici per evitare la stagnazione dopo il ritorno dell’Europa in deflazione certificato ieri dai numeri sul costo della vita europei ed italiani:

«Contro la deflazione l’unica risposta è una robusta iniezione di fiducia. E questa potrebbero darla investimenti massicci, privati ma anche pubblici. Non bastano più generici appelli, come quello partito durante il fine settimana al G20, i mercati e i cittadini non si accontentano più, come prova la reazione piuttosto negativa  delle Borse alla riapertura. È tempo di misure concrete. Anche transnazionali. Un impegno serio, insomma, come chiede per esempio il Fondo monetario che invita a non limitarsi a iniziative isolate di singoli Paesi, perchè non bastano più. Che fine ha fatto il progetto cinese di creare una nuova Via della Seta da Venezia e Pechino? Oppure, per restare in Europa: ormai più di un anno fa venne annunciato il Piano Juncker da 300 e più miliardi di investimenti. Qualcosa all’inizio la Banca europea degli investimenti, incaricata di realizzarlo, ha fatto sotto il profilo delle garanzie per le piccole imprese, ma è ben poco. Dopodiché sembra esserci stato un rallentamento».

Saccomanni se la prende giustamente con il preconizzato piano Juncker, da queste parti già considerato più o meno una bufala all’epoca della sua presentazione. Poi Saccomanni concentra l’attenzione sulle difficoltà del settore del credito:

Per la deflazione-stagnazione, un punto di attrito sono le difficoltà delle banche: anche qui c’è mancanza di coordinamento?
«Certo. Le banche centrali, se vogliono evitare la guerra delle valute, devono finalmente trovare un foro di coordinamento in cui stabilire le soglie di oscillazione ragionevoli e poi procedere insieme per farle rispettare. Quanto alle banche commerciali, è sotto gli occhi di tutti l’impasse dell’unione bancaria. È stata realizzata solo una, o una e mezza, delle tre gambe su cui si dovrebbe reggere: la vigilanza. Mancano il meccanismo di sostegno comune al fondo di risoluzione, e soprattutto la garanzia europea sui depositi. Nel frattempo è arrivata la normativa del bail-in che era prevista simultaneamente alle “tre gambe”. La Germania non ne vuol sapere di andare avanti finché non si dà via libera al limite al possesso di titoli di Stato da parte delle banche. È giusto insistere sulla necessità di ridurre i rischi finanziari ma questo processo sarebbe rafforzato da meccanismi europei di condivisione dei rischi stessi. Il negoziato è lontano dalla conclusione e c’è il pericolo di lasciare le cose a metà per un periodo indefinito».

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