Il «suicidio» di Stefano Cucchi e quello della giustizia

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2014-11-01

La perizia che salva agenti, medici e infermieri parla di mancata correlazione tra le botte e la morte. La sindrome da inazione che «spiega» una morte ed esclude le altre cause. Storia di una giustizia che muore

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Sta tutto nelle righe della perizia. Il motivo per il quale Stefano Cucchi è morto è scritto nero su bianco nella perizia d’ufficio che manda assolti tutti e dodici gli imputati del processo d’Appello: Carlo Bonini oggi su Repubblica la chiama sindrome da inazione: «i soggetti affetti da questa sindrome perdono progressivamente interesse per la vita sociale, per ogni interesse politico e culturale, lasciano trascorrere il tempo in modo passivo senza nulla concludere; la vita emozionale è impoverita, si riscontra una perdita dell’energia, e difficoltà a concentrarsi accompagnata da grande irritabilità: questa sindrome colpisce spesso i detenuti a causa dell’insufficienza di stimoli lavorativi, ricreativi, sociali, e rappresenta un grave ostacolo alla risocializzazione» (fonte).
 
IL «SUICIDIO» DI STEFANO CUCCHI
Il processo vedeva imputati i medici Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti e Flaminia Bruno, gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, e gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. A vario titolo, e a seconda delle posizioni, erano accusati di favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio, falsità ideologica, lesioni ed abuso di autorità.

Stefano Cucchi — certificano i periti — muore per “sindrome di inanizione”, vale a dire di fame e di sete. Certo, concedono, la sua colonna vertebrale presentava una frattura al coccige. Ma solo quella e “non invalidante”. Né vi è dubbio — chiosano — che il suo corpo mostrasse segni di traumi recenti e importanti. Ma — ecco il punto — nessuno di quei traumi è collegabile in un rapporto di causa-effetto al precipitare del suo quadro clinico. Al punto, da ritenere quelle lesioni “fresche” “compatibili” con una “caduta dalle scale” nei sotterranei del palazzo di giustizia, piuttosto che con un pestaggio da parte degli agenti penitenziari che lo avevano in custodia. Stefano Cucchi, insomma, muore per la sua ostinazione a non volersi nutrire ed idratare a sufficienza una volta scaricato in una corsia del Pertini. Un’ostinazione ancora più esiziale — argomentano i periti e maramaldeggia volgarmente ora il sindacato Sap — considerando i segni lasciati nel suo fisico dal suo passato di tossico. “Un suicidio”, insomma.

Le botte non sono causa della morte. Anche se ci fossero state, non avrebbero causato alcunché o peggiorato la situazione di Cucchi, destinato a morire in ogni caso. Gli infermieri che lo lasciarono in agonia con un catetere ostruito, chi gli ha provocato lesioni diverse da quella della caduta sulle scale accidentale che fa persino sorridere, per quanto la realtà sembri somigliare alla più abusata delle scuse, sono tutti un accidente della storia secondo la decisione del giudice. Particolari che non spiegano, che non provocano, che non hanno attinenza con la morte di Cucchi. Aggiunge, per metterci del suo, il senatore del Nuovo Centro Destra Carlo Giovanardi: «Cucchi è morto perché non lo hanno curato e non gli hanno dato da bere e da mangiare quando faceva lo sciopero della fame. C’è una responsabilità morale dei medici. Lui non era in grado di gestirsi e avevano l’obbligo di nutrirlo. E’ vittima di una vita complicata, di una vita in cui era stato coinvolto in pestaggi. La droga ha una responsabilità perché gli ha rovinato la vita. Il povero Cucchi era già stato ricoverato 16 volte per lesioni. Nelle perizie si legge che Cucchi ha mangiato se stesso, quando è andato in ospedale pesava 36 chili». Ma perché ha fatto lo sciopero della fame? «Protestava per l’arresto. Poi c’è un’altra teoria, qualcuno dice che aveva lasciato la roba in casa ed era preoccupato che gliela sequestrassero e che chi gliela aveva fornita lo scoprisse. Gli agenti penitenziari sono vittime, sono stati criminalizzati. Basta ricordarsi dei manifesti per le strade di Roma. Hanno avuto vita e carriera distrutte e continuano a ricevere insulti».
stefano cucchi
NESSUNO È STATO
Gaetano Thiene, che aveva svolto una perizia anche sul caso Aldovrandi, aveva dato il suo parere su quelle ferite: secondo il professore, la lesione di fibre muscolari della zona lombare, all’altezza della vertebra L3, «con infiltrato emorragico» avrebbero provato un trauma da colpo diretto (non da caduta) e soprattutto recente. Le lesioni agli stinchi e alla zona lombo-sacrale, che non potevano essere spiegate con la caduta dalle scale e quindi furono considerate all’inizio come già presenti sul corpo di Cucchi prima dell’arresto. Il suicidio non assistito di Stefano Cucchi, che «è morto mentre era nella custodia dello Stato, mentre era affidato alle istituzioni. E non ha trovato assistenza nei 12 luoghi (tra caserme, ospedali e aule di tribunale) che ha attraversato in una settimana di sofferenze», come ricorda Luigi Manconi su Avvenire, non ha un colpevole perché evidentemente “Nessuno è Stato”.

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La prima pagina del Manifesto del 1 novembre 2014

Il dolore del ragazzo è così lancinante che i medici che per primi lo visitano al Fatebenefratelli consigliano non solo delle radiografie, ma anche un immediato ricovero. Stefano, infatti, non solo non riesce camminare, ma neppure a urinare spontaneamente, tanto che gli viene applicato un catetere. Di più, quando la sua salma sarà riesumata per la perizia di ufficio, lungo il tratto vertebrale verranno refertate “copiose tracce di sangue nella zona lombare”, indice evidente di quei traumi che non si vogliono vedere o, meglio, che si ritengono “compatibili con una caduta dalle scale”. Al punto da offrirne una spiegazione singolare. Quel sangue — argomentano i periti — in barba alla legge di gravità, sarebbe risalito dopo la morte «dal basso verso l’alto» a causa del trauma nella zona del coccige. Quella, appunto, interessata dalla «caduta» sulle scale. (Carlo Bonini, La Repubblica, 1 novembre 2014)

Il «suicidio» di Stefano Cucchi è quello della giustizia italiana.

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