La vittima dimenticata di via Rasella

di Tommaso Giancarli

Pubblicato il 2016-03-24

Piero Zuccheretti era un bambino, un ragazzino sfortunato, una persona finita nell’occhio della violenza – non per scelta o per reazione: per caso. In questo, più che un simbolo, è un promemoria: di tutte le persone, i milioni che sono la parte silenziosa della storia e dell’umanità e che pagano con la vita le scelte di qualcun altro o, più spesso, delle circostanze

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Il 23 marzo del 1944 avveniva l’attacco di via Rasella: partigiani dei gruppi gappisti legati e ispirati dal Partito Comunista Italiano fecero saltare, al passaggio dei militari tedeschi della compagnia Bozen, un ordigno nascosto in un carretto della nettezza urbana. L’esplosione causò la morte di trentatré soldati (paradossalmente, originari di località del Sud-Tirolo appena annesse dal Reich) e di due civili italiani. Dal punto di vista militare, si trattò del maggiore e più riuscito attacco a soldati tedeschi di tutta la Resistenza urbana in Europa occidentale.

La vittima dimenticata di via Rasella

Com’è noto, l’azione ha provocato fin dal primo momento e provoca tutt’oggi enormi discussioni, più che altro di ordine morale: ha senso attaccare le truppe di occupazione sapendo, come i partigiani italiani sapevano, che a qualsiasi offesa i nazisti avrebbero risposto con rappresaglie sulla popolazione civile? Ma ha senso, d’altronde, accettare le regole dell’occupante, evitando di agire per evitare reazioni? A chi sostiene che meglio si sarebbe fatto ad attendere, invece di provocare quella rappresaglia, altri hanno risposto, con dovizia di argomenti, che le cose non stanno così: da un lato, perché non colpire in un punto significa non disturbare lo sforzo bellico nemico, e prolungare quindi la guerra, prolungando anche le sofferenze della popolazione civile; dall’altro, perché eventi come la strage di Caiazzo, avvenuta nell’ottobre del 1943 nel Casertano (in cui i tedeschi massacrarono ventidue contadini, per lo più donne e bambini, per motivi futili o inesistenti), dimostrano che la violenza nazifascista non aveva, in effetti, bisogno di micce per scatenarsi. In generale, va comunque ricordato che la resistenza italiana fu estremamente prudente e accurata nella scelta dei propri bersagli, e che l’obiettivo delle azioni fu quasi sempre puramente militare. Ma in realtà, che ciò avvenga per rappresaglia o per mera volontà, è il destino di ogni insurrezione e di ogni guerra partigiana – tanto più nell’era della guerra totale – che la comunità ribelle sia quella che soffre la quasi totalità dei morti; e che, tra questi, quasi tutti i morti siano civili. Ogni discussione sulla morale della guerra, ammesso che esista un concetto simile, non cancella questo fatto tragico. Il vero dramma etico della guerra partigiana – di ogni guerra partigiana: italiana, irlandese, curda, algerina… – non ha a che fare con il nemico che uccide i “tuoi” (l’avrebbe fatto comunque, magari in un altro momento e in un altro posto), bensì quando sei tu, ribelle, a ucciderli.

La storia di Piero Zuccheretti

È quanto successo a via Rasella a Piero Zuccheretti, una delle due vittime civili italiane della strage (l’altro, in uno dei numerosi paradossi della vicenda, era un partigiano di un gruppo non coinvolto nella progettazione ed esecuzione dell’attacco). Piero era un ragazzino di dodici anni anni non ancora compiuti, che quel pomeriggio di marzo si stava recando al lavoro; fu probabilmente l’istinto ancora infantile di unirsi ad altri bambini che seguivano per gioco la colonna tedesca in marcia, e che furono dispersi appena in tempo dai gappisti, a costargli la vita. Secondo altre ricostruzioni, il ragazzo andò direttamente ad affacciarsi sul carrettino, e l’esplosione lo colpì in pieno. In ogni caso, sebbene certo non voluta, Zuccheretti fu vittima innocente, lui ragazzino italiano costretto a lavorare a dodici anni, della violenza di altri italiani, che lottavano per liberare anche lui dalla ferocia dell’occupazione fascista. Di Zuccheretti si è parlato sempre poco, perché la sua memoria non faceva comodo a nessuno: né ai gappisti e ai loro sostenitori, che portavano la responsabilità, per quanto colposa, di quel bambino morto dilaniato; né ai loro nemici e oppositori, che preferivano puntare il dito, soprattutto negli anni della guerra fredda e della propaganda anticomunista, sulle vittime non causali, come invece Zuccheretti, l’azione partigiana, ossia su quei 335 uccisi per rappresaglia. Il bambino Piero Zuccheretti non aveva dunque i requisiti per diventare un simbolo, essendo morto per caso e per pura sfortuna, e non è stato oggetto, se non molto tardivamente e in misura tutto sommato assai limitata, di strumentalizzazioni. Né d’altra parte si è parlato di lui in storiografia, disciplina che, per un sacco di motivi tanto logici e razionali quanto gelidi, rischia a volte di mettere in secondo piano quelle persone che, pure, sono l’oggetto della sua ricerca. Piero Zuccheretti rimane perciò, a distanza di 73 anni dalla sua morte, quello che era da vivo: un bambino, un ragazzino sfortunato, una persona finita nell’occhio della violenza – non per scelta o per reazione: per caso. In questo, più che un simbolo, è un promemoria: di tutte le persone, i milioni di Zuccheretti, che sono la parte silenziosa della storia e dell’umanità e che pagano con la vita le scelte di qualcun altro o, più spesso, delle circostanze.
Foto copertina da: Wikipedia

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