Perché quel 40% non è di Renzi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2016-12-07

Il premier e i suoi fedelissimi sostengono che la percentuale del sì rappresenti un buon bottino di partenza. I sondaggisti spiegano che non è così

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Oggi molti giornali parlano del 40% ricevuto dal no al referendum e delle affermazioni di Luca Lotti in pubblico (“Ripartiamo da quel 40%“) e di Renzi in privato secondo i quali quei voti rappresentano un risultato personale del premier da cui non si può prescindere, visto che soltanto unendosi gli altri possono superarlo. Un’affermazione che non trova per nulla concordi i sondaggisti, i quali spiegano che Matteo non vale così tanto nelle urne, per ora. Alessandro Trocino sul Corriere della Sera sente i sondaggisti:

«Renzi ha ragione a pensare di ripartire da quel dato — sostiene Roberto Weber, di Ixè —. Perché il fronte del No è composto da diverse famiglie politiche, che finiranno per dividersi dopo il voto. Invece il fronte del Sì condivideva un progetto, un’istanza di modernizzazione. Se da una parte c’è stato un voto fortemente antirenziano, più che anti-riforma, dall’altra forse non si può parlare di voto renziano, ma filo renziano sì». Weber avvalora la sensazione con un dato: «La fiducia in Renzi, nel 41 per cento di Sì, è pari all’80 per cento. Mentre nel No era al 7 per cento. Da qui a traghettare quei voti ce ne passa, ma è un buon punto di ripartenza.
Nicola Piepoli è più cauto nell’analisi: «Renzi non si può intestare tutti quegli elettori. La realtà è che il Pd ha guadagnato qualcosa e contemporaneamente ha perso le elezioni. È stato un suicidio: il partito si è auto-sconfitto. Ma Renzi mantiene uno zoccolo duro: di quel 41 per cento, almeno il 25 per cento è del Pd». Ancora più scettico Pietro Vento, di Demopolis: «Il voto è stato trasversale, una parte degli elettori non ha seguito le indicazioni dei leader». Anche per Demopolis tre elettori del Pd su quattro hanno votato Sì. Ma l’istituto ha indagato anche le ragioni di questo voto: il 34 per cento di loro motiva il Sì con l’apprezzamento della riforma, il 25 per dare continuità al governo Renzi, il 41 per entrambe le ragioni. C’è un ultimo dato utile: «Se si votasse ora per la Camera — secondo l’ultimo Barometro politico — il Pd otterrebbe il 32 per cento dei voti. In voti reali, avrebbe circa 10 milioni di voti». Dati da prendere sempre con l’inevitabile contrappeso della cautela, causa troppe variabili in gioco.

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Alessandra Ghisleri mette in fila qualche cifra sui leader del Pd: «Veltroni nel 2008 prese 12 milioni di voti; Bersani, alle Politiche del 2013 scese a otto milioni e mezzo. E Renzi alle Europee superò gli undici milioni di voti». Ora, il punto è proprio capire quanti dei 13 milioni e rotti di Sì si possono associare a Renzi. Sicuramente dalla quota Pd vanno detratti i voti di Alfano, Casini, dei forzisti disobbedienti e persino di un 10 per cento di 5 Stelle. Anche Nando Pagnoncelli di Ipsos consiglia al premier un atteggiamento più mite:

Dire che quel 40% è l’embrione del partito di Renzi o del partito della nazione è una semplificazione che non sta né in cielo né in terra. Tra quegli elettori c’è dentro un po’ di tutto e molti di loro, in caso di elezioni politiche, non starebbero mai dalla parte di Renzi. Quel 40% non è paragonabile alla cifra ottenuta dal Pd alle Europee del 2014. Un referendum viaggia su binari completamente diversi.
Molti renziani, a partire da Lotti, non la pensano così…
La loro è una semplificazione dovuta anche al linguaggio imposto dai social media, che oltretutto non tiene conto dello scenario tripolare: ormai sempre più spesso assistiamo a due alleati estemporanei che si coalizzano contro un terzo. Lo abbiamo visto in questo referendum, ma anche a Torino con la Appendino.
Quindi, eventualmente, da cosa Renzi può ripartire?
Dai voti del Pd, che al momento stannointorno al30%, ma nemmeno tutti. Come non può contare nemmeno sui voti totali degli alleati. A farlo sperare potrebbe essere il grado di fiduciadegliitaliani nei suoi confronti, il 36%, dietro solo a Sergio Mattarella col 61. Ma anche qui non confondiamo: il grado di fiducia non è traducibile in voti nell’urna in caso di elezioni.
Nel governo c’era l’opinione diffusa che più alta sarebbe stata la percentuale di voto, più chance aveva il Sì. È accaduto l’esatto contrario…
Noi abbiamo sempre sostenuto che il Sì avrebbe avuto più possibilità di vittoria con un’affluenza bassa, intorno al 50%. Con un numero alto di votanti, com’è stato, davamo il No tra il 55 e il 58%. Abbiamo sbagliato di poco…

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