Perché i boss di Corleone volevano uccidere Alfano?

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2015-11-20

Lo dicono loro stessi nelle intercettazioni: per una questione di ingratitudine. «È un porco. Chi l’ha portato qua con i voti degli amici? E’ andato a finire là con Berlusconi e ora si sono dimenticati tutti»

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“Se c’è l’accordo gli cafuddiamo (diamo ndr) una botta in testa. Sono saliti grazie a noi. Angelino Alfano è un porco. Chi l’ha portato qua con i voti degli amici? E’ andato a finire là con Berlusconi e ora si sono dimenticati tutti”. Questo dicono due mafiosi intercettati dai carabinieri commentando l’idea di eliminare il ministro dell’Interno per aver inasprito il 41 bis. Una questione di presunta ingratitudine dietro l’idea di un attentato al ministro dell’Interno. Per questo i boss si erano detti pronti ad attentare alla vita di Alfano.

Perché i boss di Corleone volevano uccidere Alfano?

L’intercettazione fa parte delle investigazioni dell’operazione “Grande Passo 3”, che ha decapitato il mandamento di Corleone, procedendo all’arresto di sei esponenti di spicco. Sono stati intercettati mentre sfogavano la loro rabbia contro il titolare del Viminale. “Gli faremo fare la fine di Kennedy”, hanno detto come documentato da una intercettazione, nella quale i mafiosi sostengono la responsabilita’ di Cosa nostra nell’omicidio del presidente degli Stati Uniti, commesso a Dallas nel 1963. Una missione di morte, per punire un presunto voltafaccia, secondo i boss, per i quali al consenso assicurato non sarebbe corrisposta una tutela dei loro interessi. Secondo quanto confermato dagli inquirenti, gli “eredi” dei boss Riina e Provenzano, che continuavano a portare avanti le due “anime”, una “oltranzista” e l’altra “moderata”, dei due storici capimafia, in un’intercettazione avrebbero fatto riferimento all’eliminazione del ministro, accostando le sue sorti a quelle di John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963. I boss facevano anche delle ipotesi sul luogo dove realizzare l’attentato al ministro dell’Interno agrigentino: in Sicilia, durante una campagna elettorale; ritenevano che in quella occasione l’esponente politico sarebbe stato più vulnerabile. Poi, però, era rimasto solo un progetto, mai passato alla fase operativa, questo dicono le indagini. Ma nelle ultime settimane i fedelissimi di Riina parlavano spesso di armi da nascondere. Per questa ragione, i nuovi padrini di Corleone sono stati fermati in gran fretta dai carabinieri di Monreale e di Corleone. Il provvedimento è firmato dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti che hanno condotto l’indagine dentro gli ultimi misteri di Cosa nostra, Sergio Demontis e Caterina Malagoli.

Le minacce di Totò Riina

Alfano doveva essere colpito, secondo le intenzioni dei alcuni dei boss corleonesi intercettati, in occasione di una campagna elettorale, dove appariva meno protetto. Lo dovevano “cafuddare” (colpire), dicevano, proprio come Kennedy che, secondo gli ‘allevatori corleonesi’ oggi fermati, sarebbe stato ucciso per volere della mafia per il suo cambiamento di atteggiamento. C’e’ pure la spasmodica ricerca di armi che avvalora la volonta’ di agire. Nelle intercettazioni ambientali in carcere – tra agosto e novembre 2013 – Riina e’ stato sentito minacciare il Pm Nino Di Matteo e se la prendeva proprio con Alfano, a causa dell’inasprimento del 41 bis, vero assillo del capomafia. Il leader Ncd doveva essere puntito per la sua intransigenza, di cui era emblema l’odiato e temuto carcere duro, al quale era sottoposto Toto’ Riina, rimasto un riferimento assoluto per molti a Corleone. Ma non per tutti. Nel mandamento convivevano e spesso si scontravano i fautori della linea violenta e quelli piu’ favorevoli a un profilo basso, come Provenzano. Rimase un progetto quell’attentato, per il momento. Ma restava la pericolosita’ dei soggetti oggi in manette, che continuavano a controllare il territorio e che erano pronti sempre a colpire. “Tenuto conto dei progetti omicidiari e della pericolosita’ sociale dimostrata dagli appartenenti a Cosa nostra – afferma infatti l’Arma dei carabinieri – che ha continuato a mantenere saldamente il controllo del territorio con una costante pressione sul tessuto sociale ed economico, attraverso i classici metodi intimidatori del danneggiamento di mezzi d’opera e degli incendi – la Dda di Palermo ha ritenuto necessario procedere ai fermi del potenziale gruppo di fuoco e dei vertici dell’organizzazione, al fine di evitare la commissione di reati piu’ gravi”.

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