Nancy F.: morire a dodici anni per non soffrire più

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-10-27

La storica decisione di lasciar morire una bimba con gravissime disabilità che non era in grado di parlare, camminare, mangiare e bere. La scelta coraggiosa della madre Charlotte. E il dibattito sull’eutanasia pediatrica ancora difficile da portare avanti

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Nancy Fitzmaurice era nata cieca ed era affetta da gravissime condizioni patologiche: idrocefalia, meningite, setticemia. Non era in grado di parlare, di camminare, di mangiare, di bere. Tutta la sua vita l’aveva passata in una condizione di continua assistenza e, soprattutto, di dolore. Nutrita e idratata artificialmente, non c’era alcun margine di cambiamento, per quanto minino. Crescendo la situazione peggiorava, e non si riusciva a contenere la sua sofferenza nemmeno con la morfina e la chetamina. La madre, Charlotte, l’aveva assistita a tempo pieno, offrendole la migliore condizione di vita possibile. Ma i confini era sempre stati molto angusti. Esistono dei limiti alla sofferenza che un genitore può tollerare per il proprio figlio? Come si può decidere per qualcun altro? Sono domande impossibili. Domande cui nessun genitore vorrebbe rispondere. Ma Charlotte, dopo aver assistito per 12 anni alla sofferenza di Nancy e rendendosi conto del peggioramento in corso, ha preso una decisione terribile: non prolungarla. L’unica alternativa per Nancy sarebbe stata questa: continuare a soffrire, peggiorare.

Charlotte e Nancy (2002)
Charlotte e Nancy (2002)

 
IL DIRITTO DI MORIRE
E così Charlotte ha presentato la richiesta di poter lasciare che la figlia morisse. Ha implorato l’autorità di comprendere la gravità e la incurabilità della figlia, di capire che prolungarle la vita significava unicamente prolungare le sue atroci sofferenze. La morte era l’unico modo per darle la pace. Eleonor King, giudice dell’Alta corte di giustizia, ha accolto la sua richiesta (per la prima volta per un bambino che era in grado di respirare autonomamente e senza il supporto di un ventilatore meccanico). Così Charlotte ha descritto l’ultimo giorno di vita della figlia Nancy: «L’ultimo giorno è stato il più duro della mia vita. È stato terribile. La mia bellissima figlia mi manca ogni giorno e nonostante sapessi che fosse la cosa giusta da fare non sarò mai in grado di perdonarmi».

 
IL DIBATTITO MORALE
Sappiamo bene che l’eutanasia, il suicidio assistito e perfino l’interruzione dei trattamenti vitali suscitano un intenso dibattito morale. Diventa ancora più complicato quando decisioni del genere coinvolgono i minori e quando non è (necessariamente) il diretto interessato a decidere. Secondo alcuni la vita è così sacra da non poter essere interrotta in nessuna circostanza. Nemmeno se sono io a decidere della mia. Secondo altri la possibilità di decidere è più forte di qualsiasi pretesa di sacralità. Nel caso di Nancy, però, ci sono ulteriori nodi morali. Come dicevo prima, ci troviamo davanti a un minore e, in assenza di capacità cognitive minime, siamo noi a decidere per qualcun altro (è lo stesso dilemma nel caso di un individuo in stato vegetativo persistente, per esempio). Non dobbiamo nemmeno dimenticare, però, che non prendere decisioni o limitarsi a prolungare una vita oppressa da tanta sofferenza non sono scelte moralmente neutrali o, addirittura, intrinsecamente preferibili. Ogni volta dovremo insomma valutare attentamente tutte le alternative a disposizione.
 
EUTANASIA PEDIATRICA
La discussione è complicata e dovrebbe essere condotta senza scivolare nelle immediate accuse di nazismo (o analoghe reazioni primordiali). Ecco quello che succedeva qualche anno fa riguardo al Protocollo di Groningen, ovvero il protocollo olandese sull’eutanasia pediatrica. L’articolo sul «New England Journal of Medicine», The Groningen Protocol — Euthanasia in Severely Ill Newborns, iniziava così: «Of the 200,000 children born in the Netherlands every year, about 1000 die during the first year of life. For approximately 600 of these infants, death is preceded by a medical decision regarding the end of life. Discussions about the initiation and continuation of treatment in newborns with serious medical conditions are one of the most difficult aspects of pediatric practice. Although technological developments have provided tools for dealing with many consequences of congenital anomalies and premature birth, decisions regarding when to start and when to withhold treatment in individual cases remain very difficult to make. Even more difficult are the decisions regarding newborns who have serious disorders or deformities associated with suffering that cannot be alleviated and for whom there is no hope of improvement». Se è più facile farsi una idea con una storia, ecco quello di Chanou: «La piccola Chanou nasce nel 2000 con una grave anomalia metabolica; piange continuamente, soffre e prova intenso dolore non appena la si sfiora. Nutrita artificialmente, ha una prospettiva di vita (dolorosa) inferiore ai tre anni. I genitori implorano i medici di farla smettere di soffrire. Quando Chanou ha sette mesi le è sospesa l’alimentazione e somministrata della morfina. Secondo i genitori la bimba ha sofferto anche troppo, più di quanto avrebbe dovuto. I medici aiutano a morire i bambini tanto gravemente ammalati, con il consenso dei genitori, ma con il timore di essere perseguiti per omicidio». Fare finta di niente non è una soluzione.

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