Perché il massacro in Libia ci dovrebbe interessare

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-03-31

L’insediamento del governo apre la strada all’opzione militare. Il rischio guerra civile. Gli USA premono sull’Italia e vogliono che guidi la missione. Ma il governo vuole attendere una stabilizzazione e limitare il contributo militare. La Francia vuole partecipare, la Gran Bretagna ha inviato istruttori militari. Palazzo Chigi vuole schierare un numero limitato di truppe. Gli sbarchi dei migranti in aumento

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Uomini armati hanno preso ieri sera a Tripoli il controllo della tv Al Nabaa. Le trasmissioni sono state interrotte e il personale evacuato. Al Nabaa è una tv vicina alle autorità di Tripoli, che si oppongono al premier Al Serraj, sostenuto dalla comunità internazionale. Dalla stessa catena televisiva questa sera il capo del cosiddetto governo di Tripoli, Khalifa Gweil, aveva diffuso il messaggio tv in cui chiedeva al governo arrivato a Tripoli di lasciare la capitale. Ieri pomeriggio il consiglio presidenziale guidato dal premier designato Fayez al Sarraj sbarcato oggi nella capitale a bordo di una motovedetta libica partita da Sfax ieri in nottata si è dovuto asserragliare in una base navale viste le condizioni di sicurezza praticamente inesistenti.

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La Libia spaccata (Internazionale, 31 marzo 2016)

Perché il macello in Libia ci dovrebbe interessare

 Il Paese rimane controllato, per ora, a Nord dal governo di Tripoli e da quello di Tobruk. I rappresentanti di quest’ultimo hanno fatto sapere che riconosceranno l’esecutivo di unità nazionale solo se riceverà l’approvazione della Camera dei Rappresentanti (che risiede a Tobruk). L’esecutivo sostenuto dall’Onu è stato proclamato nel gennaio 2016, in virtù di un accordo siglato in dicembre in Marocco con l’obiettivo di mettere fine al contrasto tra il governo di Tripoli e quello di Tobruk. Scrive Francesco Battistini sul Corriere della Sera:

Il rischio che la guerra civile riesploda nelle strade della capitale è evidente: già in serata, la tensione era molto alta nella capitale, dove in serata si sentivano gli spari, e il governo non riconosciuto s’appellava a «tutti i rivoluzionari perché si schierino contro questo gruppo d’intrusi, che infiammerà la situazione a Tripoli e c’imporrà la tutela internazionale». Quasi un ultimatum: «O Serraj si consegna alle autorità, o torna a Tunisi», ha minacciato Gweil, avvertendo che il premier sarà ritenuto «pienamente responsabile del suo ingresso illegale» (e perciò punibile). Ma sui social si scrive che dietro il blitz navale ci sono gl’italiani. Del resto, l’insediamento d’un esecutivo a Tripoli — precondizione necessaria a chiedere un intervento militare internazionale — era quel che l’Onu, l’Ue e il governo italiano caldeggiavano da tempo

“Nessuna forza straniera ha preso parte alla protezione del consiglio presidenziale libico nel suo arrivo a Tripoli”, ha sottolineato Abderrahman al-Tawil, responsabile del comitato temporaneo di sicurezza del governo di unità. Una presa di posizione decisa, tesa a smentire le voci diffuse da fonti legate ai falchi libici, secondo le quali Sarraj si sarebbe imbarcato su navi militari occidentali. E ancora: “Formazioni armate (legate al governo, ndr) presidiano la base navale e sono pronte a respingere ogni attacco”, ha aggiunto Tawil. Il timore è che le milizie legate al ‘premier’ Khalifa Ghwell, al presidente del Congresso di Tripoli (Gnc) Nouri Abusahmain e alla variegata galassia dei gruppi jihadisti passino dalle parole ai fatti. Secondo diversi testimoni, alcuni gruppi armati avrebbero sparato dei colpi in aria con le anti-aeree montate sui pick-up per impedire ad alcuni sostenitori del governo di unità nazionale di radunarsi nei pressi della piazza dei Martiri, il ‘cuore’ di Tripoli. Ed è qui che i gruppi fedeli al governo Sarraj potrebbero decidere di lanciare nelle prossime ore l’offensiva per assicurare al governo la capacità di operare.

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Le posizioni della comunità internazionale sulla Libia (La Repubblica, 31 marzo 2016)

La Libia e l’Italia

E dopo? Dopo quello che si attende è l’intervento europeo ed italiano. I governi europei si sono impegnati a un intervento a patto che venga richiesto dalle autorità legittime. Ma il punto è proprio questo, sottolinea Giampaolo Cadalanu su Repubblica: «Il premier guida un governo di unità nazionale che però di unitario ha ben poco. È sgradito alla fazione tripolina di ispirazione islamista, guidata da Khalifa Ghweil, che nei giorni scorsi aveva imposto la chiusura dello spazio aereo proprio per impedire l’atterraggio di Serraj. È ben lontano dall’ottenere il sostegno del Parlamento di Tobruk, anche se un centinaio di deputati sarebbero disposti a sostenerlo. In altre parole, sembra essere solo un governo voluto se non imposto dalle Nazioni Unite. E adesso la sua presenza pone domande e apre scenari di soluzione non facile». Gli USA premono sull’Italia e vogliono che Roma guidi la missione. Ma il governo italiano vuole attendere una stabilizzazione e limitare il contributo militare. La Francia vuole partecipare ma con un ruolo meno evidente rispetto alla missione di Sarkozy contro Gheddafi, la Gran Bretagna ha inviato istruttori militari e ha schierato le sue navi da guerra.

La situazione di disaccordo sul terreno, con la presenza di duecentomila miliziani armati divisi fra le diverse fazioni e l’ombra dei cinquemila fondamentalisti dell’Is che cercano di guadagnare terreno, lascia intuire che l’ipotesi di operazioni militari brevi e decisive debba lasciare spazio alle prospettive di un intervento lungo e costoso, in termini economici ma soprattutto di vite umane. Il governo Cameron, criticato ferocemente in questi giorni per il ruolo avuto da Londra nella deposizione di Gheddafi, per ora si limita a «non negare» che istruttori britannici sono già presenti in terra libica e a mandare l’incrociatore Enterprise per contrastare l’azione degli scafisti, dando disponibilità all’invio di motovedette della Guardia costiera ed elicotteri. Anche Berlino ha spedito i suoi tecnici per dare assistenza, ma fermandoli in Tunisia.

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L’entusiasmo con cui il governo si è proposto alla guida di una missione internazionale sembra del tutto tramontato. La Farnesina sottolinea che bisogna offrire ai libici l’opportunità di costruire una pace, ampliando la base del consenso al governo Serraj, purché questo avvenga in tempi ragionevoli. Palazzo Chigi sembra disponibile solo a fornire assetti tecnologici (cioè sostanzialmente cacciabombardieri e droni da usare contro il sedicente Stato islamico), oltre a un numero limitato di truppe speciali. L’idea dello sbarco di un contingente numeroso non è presa in considerazione. Con i ricordi del passato coloniale, una presenza italiana troppo rilevante potrebbe avere l’effetto di far aderire anche le milizie “laiche” al fronte jihadista. Il problema è che gli Stati Uniti premono perché l’Italia dia seguito ai suoi proclami. E adesso persino una think tank come la Brookings ricorda all’Italia, con un report appena pubblicato, che è suo interesse contrastare l’influenza dell’Is in territorio libico.

All’Italia il coordinamento del “Liam” 

La prima delle richieste che Tripoli potrebbe avanzare alla comunità internazionale, è il dispiegamento su territorio libico del «Liam», il Libya International Assistance Mission, prevista dalle Nazioni Unite nell’ambito della missione Unsmil. E qui il ruolo dell’Italia sarebbe fondamentale, spiega Francesco Grignetti sulla Stampa di oggi:

Il «Liam» – per ora solo virtuale – è infatti una missione di ricostruzione delle capacità statuali; e una delle funzioni cruciali è quella della sicurezza. Fuori dal gergo diplomatico, significa che circa trenta Paesi (Usa, europei, arabi) sono pronti a inviare propri addestratori per ricostruire le forze armate e di polizia della Libia. Esattamente due settimane fa a Roma, negli uffici di Centocelle, ospiti del Comando operativo interforze della nostra Difesa, i rappresentanti dei 30 Paesi “volenterosi” hanno offerto le loro disponibilità. In quell’occasione ci fu anche un franco colloquio sulla situazione libica e molti si espressero sulla necessità di «fare presto», dichiarando di essere pronti a rispondere immediatamente alle prime richieste di al-Sarraj.
La scelta di Centocelle non è casuale: a coordinare il «Liam» c’è un team di nostri alti ufficiali. Sono il primo embrione di quella missione a leadership italiana di cui tanto s’è parlato. Secondo i piani, il «Liam» ha bisogno di 1 mese per arrivare sul terreno, di 3 mesi per essere operativo, di 6 mesi per attivare le prime forze regolari libiche.

Ma è proprio questo il punto. Ieri Paolo Mieli sul Corriere chiedeva al governo di evitare l’invio di migliaia di soldati, proprio per non aiutare in questo modo l’ISIS che verrebbe vista come la resistenza davanti all’invasore:

La presenza di quei militari getterebbe una pesante ombra di ulteriore discredito sul già delegittimato governo libico e, anziché debellarla, rischierebbe di rafforzare la presenza Isis che fa capo alla città di Sirte. La benedizione dell’Onu non sarebbe sufficiente a trasformare tale esecutivo in qualcosa di diverso da un «governo fantoccio». E non esistono precedenti storici di governi di tal fatta che non abbiano aggiunto caos al caos e non abbiano trascinato nel baratro coloro che li avevano istituiti. […]
Per il momento perciò sarebbe opportuno soprassedere e non inviare contingenti in Libia. Anche a governo realmente insediato. Sarebbe più saggio fermarci alla politica già in atto, quella di mandare un numero limitato di soldati altamente specializzati a presidiare le postazioni più delicate e, in modi poco visibili, a dare supporto ai primi passi governativi di Serraj. Il quale dovrà essere capace di conquistare il consenso e la legittimazione che ad ogni evidenza al momento gli mancano. Solo quando, tra mesi e mesi, avrà manifestamente ottenuto consenso e legittimazione, potrà — se lo riterrà opportuno — chiedere un sostegno militare internazionale per combattere l’Isis. Se lo facesse a tambur battente, l’impresa sarebbe votata all’esito di quella di Cao Ky e di tutti, ma proprio tutti, i «fantocci» che in tremila anni di storia lo hanno preceduto. E lo stesso discorso, ovviamente, varrebbe per noi.

Ecco perché il macello libico ci dovrebbe interessare. Oggi l’opzione militare per l’Italia è sul tavolo, caldeggiata dagli Stati Uniti. Ma l’ISIS potrebbe beneficiare politicamente da un intervento delle forze occidentali e in più proprio l’Italia rischierebbe di mostrare il fianco a tutti i rischi di quella che verrebbe percepita come un’invasione. Dall’altra parte gli USA premono per una nostra mossa e l’esecutivo insediatosi ieri non ha alcuna possibilità di riportare l’ordine nel paese senza un massacro. Tutte le opzioni in campo hanno controindicazioni pesanti. Per il presente e per il futuro.
Foto copertina da Al Jazeera English

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