Latte, un disastro tutto italiano

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2016-05-31

COn la fine delle quote 1500 stalle chiudono i battenti. Il governo pensa all’etichetta salva-stalle

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Arriva l’etichetta “Salva-stalle” per il latte italiano. Il governo lancerà l’idea per aiutare gli allevatori tricolori travolti dall’addio alle quote latte. Il governo ha inviato a Bruxelles lo schema di un decreto interministeriale che prevede l’indicazione obbligatoria dell’origine nei prodotti caseari venduti nel nostro Paese. Dopo l’ok della Ue – atteso nel giro di pochi mesi – su cartoni di latte, vasetti di yogurt, confezioni di formaggio, mozzarella e altri derivati dovranno essere riportate con chiarezza tre indicazioni: il Paese dove la materia prima è stata munta, quello dove è stata trasformata e quello di confezionamento.

latte disastro italiano
Il crollo del latte nel prezzo alla produzione (Repubblica, 31 maggio 2016)

Si tratta però, è bene dirlo, di un salvagente per un prodotto in grande difficoltà: spiega oggi Repubblica in un articolo a firma di Ettore Livini che l’Europa ha munto nei primi due mesi del 2016 il 7,4% di latte in più dell’anno scorso, con punte del +32% per l’Irlanda, del +21% Belgio e + 18% per l’Olanda. Il surplus d’offerta ha fatto crollare i prezzi (-11% in Italia da inizio 2015).

«E il bilancio per noi è semplice: un disastro!», sintetizza il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo: millecinquecento stalle hanno chiuso i battenti dopo la fine delle quote. Migliaia di aziende agricole sono sull’orlo del lastrico, costrette a vendere a 31,9 centesimi al litro un prodotto che a loro – tra mangimi, macchine ed energia – ne costa quasi 40. I 120 milioni di aiuti stanziati dal governo hanno consentito di mettere una toppa temporanea al disastro («ogni volta che chiude una stalla si cancella un sistema fatto di animali, prati, sicurezza alimentare, formaggi tipici e salvaguardia del territorio», ricorda Moncalvo). Ma l’allarme resta rosso. E 120mila lavoratori del settore, come i loro colleghi tedeschi e francesi, sono pronti a chiedere all’Europa un mezzo dietrofront: un ritorno, pur annacquato e mascherato, a un sistema di quote volontarie o aiuti finanziari ai virtuosi che non hanno aperto i rubinetti delle mungitrici. L’Italia paga alla liberalizzazione un conto più salato degli altri. Un po’, va detto, è colpa nostra: le aziende del settore sono piccole e poco organizzate.
La forbice tra il prezzo del latte in stalla e quello sugli scaffali – come sottolinea polemica la Coldiretti – è quasi del 400%, «la più ampia d’Europa». La produzione domestica non basta a coprire i consumi nazionali (importiamo il 40% del fabbisogno totale). Ogni anno arrivano così dall’estero – Lituania in primis – milioni di quintali di cagliate con cui poi produciamo gustose mozzarelle rigorosamente made in Italy e tre cartoni di latte su quattro – sostiene Coldiretti – provengono da oltre frontiera. Un fenomeno che la nuova etichettatura potrebbe aiutare a ridimensionare. A far piovere sul bagnato (oltre alle sanzioni alla Russia – sono poi le imitazioni farlocche dei formaggi di casa nostra: gli Stati Uniti, per dire, producono ogni anno 144 milioni di chili di “parmesan”, la metà del Parmigiano-reggiano che esce in dodici mesi dai caseifici emiliani. Un disastro economico per gli allevatori italiani, visto che il 40% del latte tricolore va proprio nella produzione di formaggi.

Dalle frontiere italiane passano ogni giorno 24 milioni di litri di ‘latte equivalente’ tra cisterne, semilavorati, formaggi, cagliate e polveri di caseina, per essere imbustati o trasformati industrialmente e diventare magicamente mozzarelle, formaggi o latte italiani, all’insaputa dei consumatori. Nell’ultimo anno – denuncia la Coldiretti – hanno addirittura superato il milione di quintali le cosiddette cagliate importate dall’estero, che ora rappresentano circa 10 milioni di quintali equivalenti di latte, pari al 10 per cento dell’intera produzione italiana. Si tratta di prelavorati industriali che vengono soprattutto dall’Est Europa che consentono di produrre mozzarelle e formaggi di bassa qualita’. Un chilogrammo di cagliata usata per fare formaggio sostituisce circa dieci chili di latte e la presenza non viene indicata in etichetta. Oltre ad ingannare i consumatori cio’ fa concorrenza sleale nei confronti dei produttori che utilizzano esclusivamente latte fresco. L’assenza dell’indicazione chiara dell’origine del latte a lunga conservazione, dei formaggi o dello yogurt non consente – sostiene la Coldiretti – di conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative, ma impedisce anche ai consumatori di sostenere le realta’ produttive nazionale e con esse il lavoro e l’economia del vero Made in Italy. “In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo. Una possibilita’ offerta dal via libera venuto sulla base del regolamento comunitario N.1169 del 2011, entrato in vigore il 13 dicembre del 2014, che – conclude la Coldiretti – consente ai singoli Stati Membri di introdurre norme nazionali in materia di etichettatura obbligatoria di origine geografica degli alimenti qualora i cittadini esprimano in una consultazione parere favorevole in merito alla rilevanza delle dicitura di origine, ai fini di una scelta di acquisto informata e consapevole.

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