Kobane: il doppio gioco della Turchia

di Elsa Stella

Pubblicato il 2014-10-15

L’unico paese NATO a condividere un confine con i due Stati tra cui si estende il Califfato dell’ISIS – Iraq e Siria – sta mantenendo un atteggiamento ambiguo nei confronti dei jihadisti. Perché la questione curda interessa di più nel lungo periodo. Ma così si rischia un massacro

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Qual è il gioco di Ankara? Unico paese NATO a condividere un confine con i due Stati tra cui si estende il Califfato dell’ISIS –Iraq e Siria, – la Turchia sta mantenendo un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti dei jihadisti: ha negato agli Stati Uniti l’utilizzo delle proprie basi per i raid aerei contro l’ISIS; non ha firmato la dichiarazione di Gedda con la quale Stati Uniti, paesi del Golfo Persico, Egitto, Iraq, Giordania e Libano si impegnano a combattere il Califfato; e il parlamento turco ha sì autorizzato il governo a compiere missioni militari all’estero, ma per combattere “il terrorismo del PKK e altre organizzazioni”, senza nemmeno nominare l’ISIS. Il governo di Ankara si limita a concedere agli alleati l’accesso al proprio spazio aereo per i sorvoli. E sebbene l’ONU abbia messo in guardia sul rischio, nella città siriana di Kobane, di un genocidio delle dimensioni di quello di Srebrenica, la Turchia (che dispone di un esercito secondo solo a quello degli Stati Uniti, nell’Alleanza Atlantica, e ha una collocazione geopolitica strategica) resta inerte.
 
IL GIOCO DI ANKARA
Intanto infuria la battaglia per Kobane,  ultimo baluardo alla penetrazione jihadista, situata a meno di un chilometro dal territorio turco; i combattenti curdi sembrano aver recuperato terreno, e la bandiera nera dei tagliagole non sventola più sulla collina di Tall Shair).
A Kobane
Ma martedì i caccia di Ankara hanno bombardato postazioni della guerriglia curda del PKK nel sud-est del paese, per la prima volta dalla instaurazione della tregua proclamata dai curdi nel marzo del 2013: eppure sono proprio combattenti curdi quelli che tengono testa agli islamisti dell’ISIS a Kobane. I guerriglieri del PKK (il Partito curdo dei lavoratori fondato nel ’78 da Abdullah Ocalan, in carcere dal 1999) sferrano i loro attacchi ai militari di Ankara soprattutto nella regione sudorientale del paese, dal Kurdistan iracheno; i peshmerga, i guerrieri curdi che contrastano strenuamente l’avanzata dell’ISIS, provengono proprio da questa regione. La popolazione di etnia curda è disseminata tra quattro Stati (Siria, Iraq, Iran e Turchia), parla dialetti diversi e si differenzia rispetto alle posizioni politiche – si va dalla richiesta di autonomia amministrativa a quella di un vero e proprio Stato sovrano, –  ma il conflitto sta funzionando da collante, e la rivendicazione dell’indipendenza, con la definizione di una entità statale curda, non può essere lontana.
 
LA QUESTIONE CURDA
La riluttanza della Turchia a impegnarsi in maniera sostanziale nel conflitto è una scelta imposta in primo luogo dalla questione curda. La resistenza curda si è accreditata come unica forza organizzata sul terreno in Iraq, dopo che l’esercito iracheno si era liquefatto davanti all’avanzata del Califfato, e questo le ha fatto acquistare meriti e credibilità, rendendo più realistica l’aspirazione di uno Stato curdo,  eventualità che apre per la Turchia il baratro della disgregazione nazionale. Senza contare che Ankara non ha interesse a che vi sia una proliferazione di armi nella regione curda, mentre la strategia di Obama del “no boots on the ground” impone che le operazioni di terra siano necessariamente condotte dai peshmerga con armi fornite dalla coalizione. Che questi armamenti possano finire nelle mani dei separatisti del PKK è il principale timore di Ankara. Decine di morti si sono registrati negli scontri scoppiati in Turchia durante le proteste della comunità curda contro l’avanzata dei guerriglieri dell’ISIS su Kobane; i dimostranti hanno accusato il governo di Ankara di assistere impotente all’affermazione dei jihadisti.Per quanto riguarda la Siria, i governi occidentali condannano la mancata chiusura delle frontiere da parte della Turchia (si ritiene che la maggior parte dei combattenti stranieri che si recano in Siria arrivi proprio dal confine nord-occidentale). E gli Usa temono che i turchi facciano il doppio gioco.
 
IL DOPPIO GIOCO DI ANKARA
La Turchia ha espresso scetticismo nei confronti della coalizione anti-ISIS a guida americana. Erdogan ne ha criticato la strategia affermando che si potrà forse riuscire a tenere a bada i jihadisti, impedendo loro di compiere attentati in occidente, ma che l’intervento americano non potrà risolvere il problema di fondo, che è quello degli assetti geopolitici e confessionali del Medio Oriente. Il sospetto è che la Turchia si serva dell’ISIS in funzione anti-curda, facendo combattere al Califfato una guerra per procura. Qualche giorno fa il premier Erdogan ha dichiarato che PKK e ISIS “vanno trattati allo stesso modo”. E Ankara, in cambio del proprio intervento, pretende che gli Stati Uniti si impegnino per la rimozione del presidente siriano Assad (un tempo alleato di Ankara) e chiede la proclamazione di una no-fly zone sulla Siria. Sullo sfondo la lotta fratricida tra sciiti e sunniti, le due anime dell’Islam scaturite dalla successione al profeta Maometto; ma il vero conflitto tra Scia e Sunna è di natura politica, non religiosa. Responsabile dell’avanzata politica e militare dell’ISIS in Iraq è stato in primo luogo l’ex premier al-Maliki, che dal 2006 a un mese fa ha sistematicamente escluso i sunniti dal potere, reprimendoli in ogni modo e associandoli alle malefatte di Saddam (la minoranza sunnita era la spina dorsale del regime del raìs di Baghdad). Questo ha consentito all’ISIS di allargare il conflitto che stava già conducendo in Siria (dove il regime sciita di Assad teneva in scacco la maggioranza sunnita del paese) conquistando consensi e territori anche in Iraq, e aprendosi la strada con decapitazioni, crocifissioni, lapidazioni di civili e di “spie”. Intanto sono circolate foto di cadaveri che mostrano segni compatibili con un attacco chimico, forse gas mostarda impiegato dall’ISIS a Kobane.  Secondo Hamish de Bretton-Gordon, esperto britannico di armi chimiche, l’ISIS punta da tempo a utilizzare armi chimiche e batteriologiche, ma è improbabile che disponga del know how necessario per fabbricarne: è più probabile che i jihadisti abbiano messo le mani su qualche arsenale siriano o iracheno e se ne stiano servendo. “Cosa ha a che fare Kobane con la Turchia?”, si è chiesto qualche giorno fa il premier turco. La risposta è semplicemente “tutto”. Restando impassibile, la Turchia passerà alla storia come complice di fatto di un massacro di gigantesche proporzioni.
 

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