Il carretto passava e quell'uomo gridava «Unilever»

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2015-10-02

La vendita dell’azienda di gelati alla multinazionale alimentare francese non sembra proprio un caso di pesce grosso che mangia pesce piccolo. Anzi. A guardare i conti degli italiani e i rischi d’impresa, insieme alle storie sul prodotto artigianale sembrerebbe l’esatto contrario

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Il carretto passava e quell’uomo gridava Unilever. L’acquisizione di GROM da parte della multinazionale alimentare francese ha scatenato la rabbia dei commentatori sui social network, che sulla pagina dell’azienda hanno gridato al tradimento dopo la notizia. In realtà hanno torto e proviamo a spiegare perché. Ma prima vediamo di che tenore sono le critiche rivolte all’azienda.

GROM: il carretto passava e quell’uomo gridava «Unilever»

Nell’ordine, secondo i commentatori la GROM ha sbagliato ad affidarsi a Unilever perché è una multinazionale: «Sono molto deluso. Avete indossato i panni degli Steve Jobs italiani, facendo i grandi imprenditori (e per me lo eravate) e per quattro soldi ora avete venduto un patrimonio e un’idea di cui essere orgogliosi. Sono sincero: per me non sarà più come prima. Fino a ieri, quando andavo da Grom, acquistavo prima ancora di un gelato, un’idea. Giusta. E buona. Da domani sarà un semplicissimo gelato, privo di quei valori che lo avevano contraddistinto. Amen». C’è chi poi accusa gli imprenditori di “averlo fatto per la vile pecunia” (?): «Che delusione enorme! Non volevo crederci appena ho letto la notizia. La Unilever è una delle aziende peggiori al mondo, basti pensare ai risaputi test sugli animali che fa. Siate onesti e dite che lo avete fatto SOLO per soldi. Punto. Che tristezza». E chi promette boicottaggi senza se e senza ma: «Il gelato come una volta…..Complimenti! Ma ci rendiamo conto?UNILEVER??? Ho la vostra gelateria sotto casa ma non ci metterò più piede, il perché dovreste immaginarlo. Per me avete fallito, grazie di avermi illusa e di avermi ribadito che tutto ha un prezzo in questo mondo».
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In realtà basta guardare un po’ alla storia dell’azienda per comprendere che un finale della storia come questo era inevitabile, e le multinazionali c’entrano poco. Federico Grom e Guido Martinetti erano alla ricerca da un paio d’anni di nuovi soci, dopo aver fatto entrare nell’azienda il gruppo Illy e altri due soci turchi e giapponesi. E la motivazione era piuttosto semplice, come ha raccontato oggi un articolo di Andrea Montanari per Milano Finanza: il bilancio al 30 settembre 2014 era stato chiuso con un giro d’affari di 27,6 milioni (+4,8%), un ebitda di -240 mila euro e una perdita di 2,4 milioni (in crescita rispetto al rosso di 1,7 milioni dell’esercizio fiscale precedente). Fatturato in crescita, margine operativo lordo (ovvero l’indice che calcola il reddito di un’azienda basato solo sulla sua gestione caratteristica, quindi senza considerare gli interessi, le tasse, i deprezzamento di beni e gli ammortamenti) in negativo e perdita importante per quella che, da splendida idea di marketing ed imprenditoriale, cominciava ad avere seri problemi di business. Le 67 gelaterie in Italia e all’estero non rendevano abbastanza: «al 30 settembre 2014 Grom presentava debiti nei confronti del sistema bancario per 7,2 milioni e una posizione finanziaria netta negativa di 5,5 milioni, a fronte di un patrimonio netto di 4,6 milioni». Troppi investimenti in attività e beni materiali, scarsa redditività, tanti debiti. Quando la situazione comincia a farsi così l’unica decisione giusta da prendere è quella di vendere a chi è più grande e può aiutare, grazie ai propri capitali, lo sviluppo di un’idea imprenditoriale che cominciava a scricchiolare.
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Il gelato «artigianale» di GROM

Nel frattempo c’è da registrare che qualche colpo al business i consumatori lo avevano inferto. Grom ha dovuto togliere dal proprio sito internet la definizione di ‘artigianale’ in seguito a una diffida del Codacons. Il gelato di Grom, pur essendo un prodotto di alta qualità, realizzato con materie di prima scelta, “non è artigianale per due motivi – spiegava all’epoca all’Adnkronos l’avvocato Enrico Venini, legale del Codacons che ha seguito la vicenda – prima di tutto per le dimensioni dell’azienda, essendo una Spa, non è una ditta artigianale. In secondo luogo, fatto ancora più importante, è la stessa caratteristica del gelato: per essere artigianale dovrebbe essere prodotto in loco e dunque fresco, invece l’azienda prepara le miscele in un unico centro produttivo, in provincia di Torino, e da lì viene smistato ovunque, nei rivenditori italiani e all’estero fino a New York, Tokyo, Parigi, Osaka a Malibu”. “Le miscele vengono pastorizzate e congelate – prosegue Venini – ed in seguito, una volta che arrivano nei negozi, si procede al loro scongelamento e alla mantecazione”. Sono proprio questi i passaggi ai quali si è appellato il Codacons per contestare il fatto che il brand si fregia impropriamente della dicitura di gelato “artigianale”. Insomma, sia dal punto di vista dei conti che da quello del business la vendita non sembra potersi raccontare con la favola del pesce grande che mangia il pesce piccolo. Con buona pace dei cattivi delle multinazionali

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