Hard Brexit: come imparai a non preoccuparmi e ad amare l'articolo 50 del trattato di Lisbona

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-10-21

Theresa May vuole la botte piena e la moglie ubriaca, ma nessuno dei leader europei le vuole concedere la possibilità di avere accesso al Mercato Unico senza consentire la libera circolazione delle merci. E così la May, che sugli immigrati (anche comunitari) è sempre stata molto dura si avvia verso la Hard Brexit.

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Oggi Theresa May prenderà parte per la prima volta ad un vertice dei 28 capi di Governo dell’Unione Europea. Non sarà sicuramente l’ultimo perché ci vorranno almeno due anni per definire le modalità di uscita del Reno Unito dalla UE ma senza dubbio la Primo Ministro britannica si troverà ad affrontare una situazione che né lei né i suoi colleghi europei sanno da che parte prendere. La responsabilità è tutta della May che, dopo aver annunciato di voler attivare la procedura d’uscita dall’Unione del suo paese entro l’inizio di marzo 2017, non ha ancora fatto sapere in che modo intende gestire la Brexit.

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May con Hollande, Merkel e Juncker al vertice UE

La lotta della May contro l’immigrazione porterà all’Hard Brexit

E la questione non è certo di poco conto, perché la May ha anche detto che è sua intenzione dare alle società inglesi la massima libertà di operare all’interno del Mercato Unico (e lasciare a quelle europee di fare lo stesso in UK) ma ha anche detto chiaramente che il paese non cederà nuovamente all’Unione il potere di esercitare il controllo sull’immigrazione. Questo è quello che è stato detto ai cittadini britannici anche durante la campagna referendaria; per la verità le promesse sono state tante e già quasi tutte smentite ma su questo punto la May non sembra intenzionata a cedere. La Brexit è stata, nonostante la mole di dati (falsi) portati per spiegare quanto la Gran Bretagna avrebbe potuto tornare ad essere grande qualora avesse lasciato la UE, solo una battaglia contro immigrati e immigrazione. Non solo il Regno Unito – quando a guidarlo era Cameron – non ha mai accettato di dover prendere parte al sistema di ripartizione dei richiedenti asilo ma anche i cittadini europei che lavorano e vivono oltremanica. Questa è da tempo anche la linea sposata dalla May, che quando era titolare dell’Home Office aveva invocato la cessazione degli accordi di Shengen. Theresa May vuole quindi la botte piena e la moglie ubriaca, ma già l’anno scorso una portavoce dell’Unione le rispose che “la libera circolazione dei cittadini europei è parte integrante del mercato unico e un elemento centrale del suo successo”, ricordando a colei che all’epoca era Ministro dell’Interno del Regno Unito che il pacchetto delle quattro libertà fondamentali su cui si fonda la UE sono – oltre alla libera circolazione delle merci – la libera circolazione delle persone, dei capitali e la libera prestazione dei servizi. In poche parole non sembra assolutamente possibile che il Regno Unito sia in grado di stipulare con l’Unione un accordo sull’accesso al Mercato Unico che non preveda anche la libera delle persone. I pochi esempi disponibili (gli accordi con Norvegia e Svizzera) lo dimostrano ma la May ha anche detto che non vuole un accordo sulla falsa riga di quelli esistenti ma un nuovo modello che dia al paese la massima libertà possibile.

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Il grafico di Bloomber illustra i vari livelli di integrazione europea e i vari tipi di accorti che ne conseguono (fonte: Bloomberg.com)

A Hard Brexit’s gonna fall

A questo punto la May dovrà scegliere se presentarsi agli elettori dopo aver staccato un corposo assegno di mantenimento alla UE, che garantirebbe all’Inghilterra l’accesso al Mercato Unico e alla City di Londra il passaporto finanziario per operare in Europa (che invece le verrebbe “revocato” in caso di uscita senza accordi) oppure se assecondare quella che sembra essere la volontà popolare come è uscita dalle urne del 23 giugno e “riprendere il controllo” sulle frontiere e sui flussi migratori. In questo ultimo caso l’alternativa è una sola e si chiama Hard Brexit. Non si sa con certezza cosa accadrà, ma le ipotesi non sono molto confortanti: si va dai dazi sui prodotti esportati dal Regno Unito verso l’Unione ad un aumento dei prezzi dei beni di provenienza europea passando per una crisi del settore finanziario, Londra non sarebbe più il centro economico finanziario dell’Europa e molte società potrebbero trasferirsi nella nuova capitale della finanza europea. Le parole d’ordine degli studi sulla Hard Brexit sono recessione (che potrebbe costare 66 miliardi di sterline ma qualcuno dice addirittura 140 miliardi, l’equivalente di 7,5 punti percentuali del PIL) senza contare le difficoltà della sterlina, che oggi sta toccando i minimi storici. Qualcuno ha proposto di modellare l’accordo che verrà su quello in vigore tra Stati Uniti e UE, governato dal WTO. Ma il problema in questo caso è un altro e riguarda il tipo degli scambi commerciali: dagli USA l’Unione importa prevalentemente beni commerciali, merci mentre il motore dell’economia del Regno Unito sono i servizi (soprattutto finanziari) e il loro mercato “naturale” è l’Unione Europea non la Cina, il Giappone o il Brasile. Servirebbe un accordo simile al TTIP i cui negoziati si sono interrotti e il progetto sembra essere naufragato (o quantomeno messo da parte a tempo indeterminato). Senza contare che per raggiungere un accordo con tutti i 161 paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio potrebbero servire anni di negoziati, anni che naturalmente significano costi per le imprese. Da questo punto di vista sarebbe come tornare indietro di quarant’anni. Inoltre la May non vuole che la giurisdizione nazionale venga intaccata dalle ingerenze della Corte di Giustizia Europea, ma non si può stipulare un accordo commerciale senza prevedere l’esistenza di un organismo di controllo sovranazionale (che di fatto influenzerà anche i singoli paesi come già accade). Dulcis in fundo c’è la questione dell’accesso al programma europeo di aiuti all’agricoltura (CAP, Common Agricultural Policy), che da solo vale circa 3 miliardi di euro e complessivamente costituisce il 55% delle entrate del Regno Unito nel settore.

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I possibili scenari della Brexit secondo la giornalista economica Linda Yueh (via Twitter.com)

C’è poi da tenere conto di quello che dicono i leader europei: Matteo Renzi ha detto che gli inglesi non potranno avere più diritti e privilegi dei cittadini dell’Unione mentre il Presidente francese Francois Hollande ha detto chiaramente che se la May vuole una Hard Brexit allora anche i negoziati saranno altrettanto duri. Sulla posizione di Hollande c’è anche Angela Merkel, quasi che la Brexit abbia contribuito a rinsaldare l’asse franco-tedesco. Il Presidente del Parlamento Europeo Donald Tusk ha usato una metafora dicendo che si rifiuta di pensare ad un’Unione dove TIR e prodotti finanziari sono liberi di attraversare le frontiere mentre le persone non è concesso. In mezzo a tutto questo ci sono quelli che, alla luce di queste prospettive non certo confortanti, in Gran Bretagna si stanno rendendo conto che forse votare Leave non è stata la scelta migliore e quindi continuano a chiedere (dal 24 giugno) un ritorno alle urne o che il Parlamento decida di non attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Ma nonostante i malumori anche tra i conservatori è da escludere la possibilità che i politici britannici decidano di andare contro la volontà popolare. Certo, il referendum non è vincolante e solo “consultivo” ma il parere dei cittadini britannici è stato chiaro: hard brexit.
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