Perché la deflazione conviene ai tedeschi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2014-09-13

Banche e famiglie tedesche hanno dimezzato l’esposizione con l’estero negli ultimi anni. Ma hanno investito a rendimenti nulli. Se calano i prezzi, conviene. Se salgono…

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Due partite diverse. Giocate in patria e all’estero. Ma a contare è soltanto un fronte. E la Germania lo sa, visto che mentre ai vertici europei si presenta con posizioni più accomodanti ma poi in patria finisce per votare il pareggio di bilancio per due anni, come dice l’economista Daniel Gros, impedendo così il rilancio della domanda interna. E intanto riesce a piazzare Katainen a guardia di Moscovici, rassicurando anche così chi temeva i pericoli della Commissione espansiva: tranquilli, non c’è rischio.
 
PERCHÉ ALLA GERMANIA LA DEFLAZIONE CONVIENE
Anche perché, come scriveva oggi su Repubblica Federico Fubini, alla Germania la deflazione conviene:

Il Paese più forte d’Europa ha reagito alla crisi rimpatriando riserve che prima investiva all’estero. La Bri mostra che dal 2008 al 2014 le banche tedesche hanno quasi dimezzato la loro esposizione al resto del mondo, riducendola di duemila miliardi di dollari. Qualcosa di simile devono aver fatto le famiglie e i risultati si vedono. Ai conti finanziari di Eurostat del 2012 (ipiù recenti), le famiglie tedesche hanno 4.700 miliardi di euro,ma in gran parte sono investiti a rendimento pressoché nullo. Per l’80% sono collocati in depositi bancari, fondi pensione o bond a cedola minima. Meno di un decimo dei risparmi tedeschi va in investimenti produttivi come titoli azionari.

E quindi, spiega Fubini, visto che i rendimenti degli investimenti tedeschi sono nulli un aumento di inflazione li porterebbe ad essere negativi, con una perdita secca del portafogli:

In queste condizioni, le famiglie in Germania non sono in grado di sopportare finanziariamente nessuna forma di inflazione. Neanche minima, neanche normale. Il carovita infatti erode il valore reale dei risparmi, se questi non rendono. E con rendimenti quasi zero sui risparmi, per gli elettori tedeschi un carovita all’obiettivo ufficiale europeo del 2% comporterebbe una perdita di potere d’acquisto in termini reali di quasi 100 miliardi di euro: una sorta di patrimoniale pari al 3% del Pil tedesco ogni anno.

Messa così, si capisce perché da Berlino a Monaco non ci si strapperà le vesti se non si dovesse centrare l’obiettivo che la Banca Centrale Europea ha tra i suoi compiti statutari: quello di mantenere un’inflazione al 2%, il che significa combatterla anche quando è più bassa. Ecco perché Draghi il bazooka ce l’ha piccolo, ed è ecco perché le sue tre bombe potrebbero essere disinnescate a breve. Beda Romano sul Sole 24 Ore di oggi spiegava però che anche ai tedeschi conviene investire di più, e quindi il famoso piano da 300 miliardi dell’Unione Europea: in primo luogo perché in questi anni le sue imprese hanno preferito delocalizzare, e invece così potrebbero tornare a investire in massa, e in secondo luogo perché potrà comunque tornare a chiedere ai partner riforme in cambio dei soldi. In più, sempre secondo Il Sole 24 Ore, i tedeschi potrebbero preferire spesa privata e aiuto pubblico ai soldi alle banche della Bce. Pia illusione? Negli anni spesso i commentatori hanno immaginato posizioni aperturiste della Germania a causa di necessità congenite. Finora hanno sempre sbagliato. «I tedeschi capiranno», recitava l’editoriale in prima pagina su uno dei giornali economici qualche tempo fa, mentre chiedeva investimenti e aiuti al settore finanziario. Inutile dire che finora non hanno capito.
 
IL RISCHIO DELLA DEFLAZIONE NEL RESTO D’EUROPA
E negli altri paesi cosa potrebbe succedere con la deflazione? Ne abbiamo parlato qui. Le sofferenze bancarie, cioè i prestiti con difficoltà di rimborso, sono calcolati intorno ai 1000 miliardi in Europa (una cifra enorme) di cui circa 160 in Italia, il 9% del totale degli impieghi, con un tasso di crescita che supera il 20% annuo. Se però alle vere e proprie sofferenze si sommano anche le ristrutturazioni, la percentuale si allinea a quella della Spagna. Meglio fa invece il Portogallo con l’8% di debiti “a rischio”, ma il fallimento del Banco Espírito Santo dimostra che anche a Lisbona non si può stare per nulla tranquilli.
Grafico: BNP Paribas EcoWeek Gennaio 2014
È quindi possibile immaginarsi uno scenario a dir poco apocalittico, in cui il crack di alcuni istituti bancari di grandi dimensioni potrebbe far ripiombare l’Europa nell’incubo del 2007-2008 e forse far saltare in aria la moneta unica. Se è vero che nel frattempo alcuni strumenti sono stati messi a punto per affrontare questo scenario (il fondo “salvastati” e un inizio di unione bancaria), è altrettanto vero che sono unanimemente considerati insufficienti in caso di crisi sistemica. Insomma, nonostante la calma piatta di questi ultimi due anni, da quando nel luglio 2012 Mario Draghi pronunciò il suo fatidico “faremo tutto ciò che è necessario per preservare l’euro”, la stessa BCE sa di essere un gigante con i piedi di argilla.

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