La fregatura di essere donna (anche al supermercato)

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-12-23

Un’indagine del Dipartimento per la tutela del consumatore di New York rivela che i prodotti “per donna” costano mediamente il 7% in più di quelli “per uomo”

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All’inizio dell’anno scolastico, quando furoreggiava il Gender abbiamo tentato – invano devo dire – di spiegare che l’ideologia gender non esiste. Abbiamo anche cercato di far capire che ben altra cosa sono i gender studies (in italiano studi di genere), spesso citati come “prova” dell’esistenza del Gender. Questi studi mirano a individuare e a spiegare i motivi per cui ad un dato genere (maschile o femminile) vengano attribuiti dei ruoli specifici non strettamente legati alle caratteristiche sessuali (ad esempio perché le donne guadagnano meno degli uomini). Questi studi non hanno prodotto una “teoria unificata” ma assomigliano più ad una costellazione di singole ricerche e modelli scientifici. Oggi parliamo proprio di uno di questi studi di genere, quello prodotto dal New York City Department of Consumer Affairs (DCA) sulle differenze di prezzo tra un prodotto per maschi e uno per femmine.

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Stesso giocattolo, prezzo maggiorato per la versione con colori “femminili” (fonte Study of Gender Pricing in NYC)

Una tassa indiretta che le donne pagano per tutta la vita

Lo studio, dal titolo From Cradle to Cane: The Cost of Being a Female Consumer (Dalla culla al bastone della vecchiaia: il costo di essere una consumatrice), compara 800 prodotti di 90 aziende diverse in commercio sia nei negozi fisici che in quelli on-line che esistono sia nella versione maschile che in quella femminile. Non si tratta quindi di vedere quanto vengono pagate in meno le donne rispetto agli uomini ma di analizzare quanto costa in più essere di sesso femminile rispetto ad essere un maschio. Non è propriamente una novità, come riporta lo studio della DCA nel 1994 lo Stato della California aveva condotto una ricerca simile che aveva evidenziato che, annualmente, le donne pagavano una “gender-tax” pari a poco più di un migliaio di dollari per ottenere gli stessi servizi degli uomini. Nel 1998 la città di New York aveva emanato una legge che vieta di far pagare di più un servizio in base al sesso del cliente, ma la legge non vale però per i prodotti commerciali in vendita. Il Dipartimento per la tutela dei consumatori di New York non fa una stima del costo annuale dell’essere donna ma suggerisce che nel corso della loro vita le donne siano costrette a pagare diverse migliaia di dollari in più per acquistare prodotti sostanzialmente simili (a parte piccole e insignificanti differenze) a quelli “da uomo”.
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In molti dei prodotti presi in esame le differenze tra la versione maschile e quella femminile sono davvero minime. Come giustificare l’incredbile differenza di prezzo tra un monopattino rosso e uno rosa? In altri la differenza è il taglio, ad esempio il caso di questa polo rossa che nella versione femminile costa due dollari in più rispetto a quella maschile.

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(fonte Study of Gender Pricing in NYC)

Le differenze rimangono tali man mano che l’età del consumatore aumenta. Le donne pagano sempre qualcosa in più rispetto agli uomini, tranne in qualche occasione come ad esempio l’abbigliamento intimo per uomini (che costa di più) e qualche prodotto per la cura del corpo. La difficoltà principale risiede nel fatto che i prodotti per gli adulti sono spesso difficilmente comparabili: per questo l’indagine della DCA si è limitata a prendere in considerazione solo alcuni prodotti “equivalenti” ovvero quelli per i quali è immediatamente e chiaramente visibile che la differenza e fondamentalmente nelle diciture “per lui” o “per lei”. Perché ovviamente la differenza nella composizione, nei tessuti o altro potrebbe infatti giustificare la differenza di prezzo. Il problema è che i prodotti per uomini e per donne (al contrario di quelli per bambini e adolescenti) raramente sono identici. Insomma se è facile vedere che un casco per andare in bicicletta “per bambini” al di là delle decorazioni (dinosauri da una parte, mini pony dall’altra) è sostanzialmente uguale ad uno “per bambine” lo stesso non si può dire con facilità in altri casi e quindi la ricerca del “gender pricing” diventa più difficile. Cionondimeno lo stesso tipo di differenza evidenziata nel prezzo delle magliette per bambini rimane anche in alcuni capi di abbigliamento per adulti.
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Per non parlare dei rasoi, quelli da barba costano meno delle stesse lamette (ma connotate al femminile) per la depilazione. Le differenze non diminuiscono una volta entrati nella terza età, anzi rimangono in linea con le situazioni precedenti. Con le donne costrette a pagare dal 4% al 20% in più lo stesso genere di prodotti degli uomini.
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La DCA ha individuato che la differenza sostanziale maggiore, ovvero dove la pratica del gender-pricing evidenzia discrepane maggior è nella fase della pre-adolescenza. Superata quella fase i prezzi tendono a stabilizzarsi e le differenze a farsi meno marcate. Caso a parte sono i prodotti per la cura personale, che sono quelli che hanno un maggiore impatto sulla spesa e che costano il 13% in più per le donne rispetto agli uomini. Mediamente le donne pagano, nel corso della loro vita, il 7% in più gli stessi prodotti acquistati dagli uomini. Qual è la spiegazione? Secondo il Washington Post potrebbe essere il fatto che i prodotti “per uomo” non sono visti come gender-specifici ma come generici, insomma le donne pagherebbero di più perché i prodotti per loro vengono considerati dal marketing una versione speciale (abbiamo visto come questa differenza sia poi minimale se non nulla). In parte quindi è anche “colpa” di quei consumatori che sono disposti a pagare di più per avere un prodotto identico ma che all’apparenza risponde meglio alle loro esigenze di personalizzazione, spiega sempre al WaPo Ravi Dhar, direttore del Center for Customer Insights alla Yale School of Management.

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