Chi sono i foreign fighters dell'ISIS?

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-03-09

Giovani, carini e radicalizzati? Qual è il profilo del combattente-tipo dell’ISIS e cosa cercano i jihadisti dello Stato Islamico? Mentre cerca di capirlo l’Occidente è vittima dell’immagine terrorizzante del foreign fighter diffusa dal Califfato che è diventata il nuovo “uomo nero”

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Se esistesse una classifica del terrorista dell’ISIS più famoso questo non sarebbe il Califfo Abu Backr al-Baghdadi ma il notorio e tristemente famoso Jihadi John. È lui, per noi occidentali che subiamo la propaganda mediatica del Califfato, il vero volto (sebbene mascherato) dell’ISIS. Per chi, come noi europei, sta al di là della barricata e il vero nemico non è tanto il Califfo di Daesh ma il terrorista che ancora non ha deciso di diventarlo, il cittadino europeo (oppure americano o australiano) che potrebbe decidere di seguire la strada percorsa già da molti prima di lui, quella di diventare uno dei cosiddetti foreign fighters dell’ISIS.
isis foreign fighters
 
LA COSTRUZIONE DELL’IMMAGINE DEL FOREIGN FIGHTER
L’ISIS ha così sviluppato un’efficace narrativa che punta tutto sulla figura del combattente che abbandona l’Occidente per unirsi alla causa dello Stato Islamico ed è pronto a versare il suo sangue in battaglia sui fronti di guerra dove l’ISIS è impegnata a portare avanti la sua offensiva per la realizzazione del Califfato. Si potrebbe dire che la strategia di comunicazione dell’ISIS è orientata alla creazione della figura mitologica del foreign fighter. I video delle decapitazioni, le produzioni come Flames of War non hanno lo scopo di convincere eventuali e futuri adepti ad unirsi alla causa, né unicamente quello di terrorizzare l’Occidente mostrandoci le brutalità delle quali sono capaci i soldati al servizio di al-Baghdadi. Come fa notare un pezzo su The Atlantic la propaganda mediata del Califfato è tutta incentrata sui foreign fighters. Il motivo? L’esistenza di persone che scelgono di abbandonare il nostro stile di vita ci spaventerebbe molto di più di quella dei terroristi, degli estremisti islamici e dei talebani afgani ai quali ci ha abituato Al Qaida. Quelli dell’organizzazione fondata da Osama Bin Laden erano uomini che venivano da lontano e combattevano in luoghi lontani (oppure che venivano da paesi remoti per portare la guerra a casa nostra). Quello che invece l’ISIS ci vuole far pensare (e temere) è che il grosso delle truppe dello Stato Islamico provenga dall’Occidente, che siano in qualche senso figli dell’Occidente che al-Baghdadi e i suoi hanno convinto che “l’educazione occidentale è peccato” e che l’unica via è quella di partecipare alla lotta di liberazione del mondo arabo. A volte si rimane così intrappolati nella retorica del foreign fighters che si è portati a credere in un doppio inganno percettivo, ovvero che i combattenti provenienti dal resto del mondo siano la maggior parte di coloro che compongono l’esercito e che gli occidentali siano la componente maggioritaria di questo esercito di stranieri. Se però si vanno a guardare i pochi e imprecisi dati riguardanti il numero dei foreign fighters e la loro provenienza si scopre che le cose non stanno proprio come ce le racconta il Califfo. Dei circa ventimila combattenti stranieri solo una ridotta percentuale proviene da Europa, America o Australia, mentre la stragrande maggioranza viene dai paesi arabi e dal Nord Africa.
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Ciononostante la costruzione dell’immagine del cittadino europeo (magari di seconda generazione) che abbandona la sua famiglia e il suo paese per intraprendere il viaggio verso la Siria (eventualmente dopo essere stato “convinto via Twitter“) ha avuto un successo straordinario. E non passa giorno che non appaia sui giornali la storia di quei ragazzi (o di quelle ragazze) che hanno lasciato la Francia, l’Inghilterra o l’Italia per andare a combattere in Siria, in Iraq o in Libia. Dal poco che si sa il profilo “tipo” del combattente dell’ISIS è quello di un giovane maschio tra i 18 e i 29 anni. Il problema è che, al di là dell’età e di poche altre informazioni (ad esempio il fatto che i jihadisti occidentali siano in maggioranza dei convertiti) è difficile stabilire un profilo dettagliato di chi potrebbe diventare un foreign fighter.
 

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PERCHÉ SI DIVENTA FOREIGN FIGHTERS
Non si è ancora capito infatti quali siano le motivazioni che spingono i futuri jihadisti occidentali ad unirsi agli uomini di Daesh. Ad esempio non c’è un unico percorso di avvicinamento all’ISIS né dal punto di vista motivazionale o “vocazionale” né dal punto di vista geografico. I punti di ingresso nell’ISIS sono molteplici e non esiste un retroterra culturale o economico comune ai jihadisti stranieri. Generalizzare il problema (ad esempio dicendo che tutti i mussulmani o tutti gli immigrati sono potenziali terroristi) non è utile. Come spiega John Horgan del “Center for Terrorism and Security Studies” presso la University of Massachusetts Lowell “Quarant’anni di ricerche su chi e perché diventa un terrorista non sono riuscite a produrre un profilo psicologico di questi individui“. Sono stati individuati alcuni motivi: quelli cosiddetti esterni, come la situazione socioeconomica svantaggiata o il tipo di educazione ricevuta, e quelli “interni” conseguenti dal essere membri di un gruppo terroristico come ad esempio la necessità per un individuo di ottenere il riconoscimento da parte di un gruppo di persone che considera sue pari, la possibilità di costruirsi una nuova identità ma anche la “voglia di avventura” e non ultimo il denaro. Le motivazioni esterne sono quelle sulle quali fa più leva la propaganda: diventa un jihadista e salva il mondo e l’Islam dalla distruzione dei valori della cultura islamica. Nel caso dei foreign fighter dell’ISIS però cosa pesa di più? La volontà di cambiare la realtà in cui si vive o il desiderio di sentirsi accettati e fare parte di qualcosa di più grande con uno scopo ben preciso (ed eventualmente le famose 72 vergini)? Difficile dirlo, il fatto che molto jihadisti siano dei convertiti potrebbe far pensare che prendere parte al Jihad sia un modo per affermare la propria appartenenza alla comunità dei fedeli ma non spiega del tutto perché venga preferita la strada della violenza rispetto ad altre. In ultima istanza non è da escludere anche il processo di emulazione delle gesta dei jihadisti più famosi con tutto quello che ne consegue. A quanto pare è una ragione sufficiente per spingere le ragazze musulmane a scappare di casa e a sposare un terrorista, non è da escludere che un aspirante combattente dell’ISIS sia a sua volta della ricerca della fama e delle donne che lo status di jihadista sembrerebbe promettergli. Anche il fattore radicalizzazione non è così scontato. Se è indubbio che alcuni combattenti siano già radicalizzati prima di partire alla volta della Siria molti subiscono il processo di avvicinamento all’Islam radicale durante l’addestramento impartito nei campi militari dell’ISIS. A differenza di altri gruppi jihadisti il Califfato però offre un’ulteriore prospettiva: quella della possibilità di partecipare alla creazione di uno Stato Islamico dove i valori dei jihadisti (ma anche la violenza) diventeranno la pietra portante del Califfato. Non solo violenza e guerra fini a sé stesse o a terrorizzare l’Occidente ma utilizzate come strumento per la costruzione di una nazione. Al di là della propaganda è questa promessa che probabilmente ha attratto il maggior numero di foreign fighters. Naturalmente è da vedere se al-Baghdadi riuscirà a mantenerla ed in che modo conterrà la violenza dei suoi adepti. Nel frattempo è ancora più evidente la mancanza in Occidente di una narrativa alternativa a quella dell’ISIS.

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