Foodora: la sharing economy del precariato

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-10-10

Non chiamateli lavoratori, sono collaboratori, giovani e dinamici, chiamati a condividere i rischi aziendali senza godere della divisione dei profitti. E se osano lamentarsi vengono licenziati con un messaggio via WhatsApp. La contrattazione collettiva? L’azienda preferisce l’uno contro uno, dove sa di avere maggior forza

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Sharing economy per molti significa possibilità di trovare un lavoretto per pagarsi gli studi, concetto che evoca l’idea dello studente fuorisede che nei ritagli di tempo fa il barista e porta a casa qualcosa con cui fare la spesa al discount per non gravare troppo sulle finanze familiari. Ma nel 2016 le opportunità di lavoro per chi ancora studia (e quindi non ha ancora toccato con mano la bellezza degli stage) non si limitano ad attività così 1.0. Adesso ci sono tutta una serie di servizi app based che hanno bisogno di una forza lavoro giovane, dinamica e motivata. Tra questi Foodora una app tedesca fondata nel 2014 che offre ai suoi clienti la possibilità di ricevere a domicilio le ordinazioni effettuate presso ristoranti che fanno cucina da asporto (della stessa serie ci sono Just Eat o PizzaBo) molto nota a Milano e Torino.
foodora sciopero sharing economy

Foodora et labora

A consegnare i prodotti non sono i fattorini del ristorante o del take away ma i rider di Foodora, ovvero i famosi universitari di cui sopra che sfrecciano in bicicletta in mezzo al traffico per farvi avere il pranzo o la cena che avete ordinato. La prima cosa interessante è che l’azienda non li chiama dipendenti ma collaboratori termine che dovrebbe evocare scenari di autonomia ben diversi ma che in realtà è da sempre, ovvero da quando è stato istituzionalizzato il precariato, sinonimo di pessime condizioni di lavoro (pardon, collaborazione) e una pressoché totale assenza di diritti. Il collaboratore non ha un rapporto di lavoro formale, può essere lasciato a casa alla bisogna e senza troppi complimenti e dal momento che non è percepito come parte dell’azienda nulla gli è dovuto. Ma cosa ci guadagna una persona ad accettare queste condizioni di lavoro? L’unico vero vantaggio (tutto da quantificare) è quello di non avere un orario di lavoro fisso ma di poter dedicare il tempo che si desidera a quest’attività, insomma la libertà di svolgere il classico “lavoretto”. In cambio il dipendente/collaboratore ottiene uno stipendio (basso) e deve rinunciare alla possibilità di protestare per ottenere condizioni di lavoro migliori.
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Perché se sei un fattorino non puoi avere né il pane né le rose, dal momento che le devi consegnare al cliente. Succede quindi che Foodora decida di cancellare i contratti e di passare da un compenso fisso di 5 euro l’ora per i rider (che garantiva uno stipendio di circa 250 euro al mese) ad un altro sistema, ben più conveniente: 2,70 euro (tre euro lordi) a consegna, senza nessun fisso. Ma non è che quando non sta facendo una consegna il rider sia libero di fare qualcos’altro, durante il tempo d’attesa tra una chiamata e l’altra deve rimanere a disposizione dell’azienda. Tempo che il “collaboratore” regala all’azienda. E così i circa cinquanta rider in forza a Foodora a Torino hanno deciso di incrociare le braccia:

Siamo i rider di Foodora. Le ragazze e i ragazzi che vi portano da mangiare con le bici e con i motorini, sia quando si muore di caldo sia quando piove a dirotto. Siamo quelli che a Milano e a Torino vedete vestiti di rosa.
Dietro i nostri sorrisi, i nostri “grazie” e i nostri “buona cena, arrivederci”, si cela una precarietà estrema e uno stipendio da fame. Le decine di chilometri che maciniamo ogni giorno, i rischi che corriamo in mezzo al traffico, i ritardi, la disorganizzazione, i turni detti all’ultimo momento, venivano ripagati con 5 miseri euro all’ora, mentre adesso addirittura vengono pagati 2,70 euro per ogni consegna effettuata, senza un fisso, con l’ovvia conseguenza che tutto il tempo in cui non ci sono ordini non viene pagato, quindi è a tutti gli effetti tempo regalato all’azienda.
A corredo di ciò a nostro carico ci sono pure la bici, lo smartphone e le spese telefoniche, gli strumenti essenziali del nostro lavoro. Il nostro contratto è una sorta di Co.co.co fatto male, una forma contrattuale superata ormai da anni che definisce una collaborazione tra un’azienda committente e un libero professionista.
Tuttavia noi rider siamo a tutti gli effetti dipendenti di Foodora: costretti ad indossare la loro divisa, sottoposti a rapporti gerarchici, in balia delle loro decisioni e sottoposti a delle valutazioni per cui se non siamo accondiscendenti nei loro confronti ci vengono dati meno turni.
Non essendo ufficialmente dipendenti non abbiamo ferie, tredicesima, contributi, accesso ai sussidi di disoccupazione e soprattutto non abbiamo LA MALATTIA!!! Una misera assicurazione ci copre spese mediche per incidenti sul lavoro, ma se stiamo male e non possiamo lavorare, se ci facciamo male mentre lavoriamo e dobbiamo stare a casa, non veniamo pagati.
Tutto ciò è inaccettabile, perciò è da mesi che cerchiamo pacificamente e cordialmente di parlare con i responsabili di Foodora Italia, ottenendo in cambio solo grandi prese in giro. Di fronte all’ennesimo inasprimento delle condizioni di lavoro abbiamo deciso di aprire alla strada sindacale, chiedendo un incontro formale con i rappresentanti sindacali. Anche a ciò non ci è stata data risposta, anzi, hanno spacciato le nostre richieste di dialogo come tentativi di rivolta, arrivando a fare mobbing nei confronti di due promoter colpevoli di aver espresso la loro solidarietà, non assegnandole più turni e impedendo loro di lavorare.
Per queste ragioni dichiariamo da questo momento lo stato di agitazione. Come lavoratori di Foodora cercheremo di portare la nostra protesta ovunque possa avere peso e visibilità, ed in quest’ottica chiediamo la solidarietà dei cittadini. Non ordinate da Foodora, non consigliatela e se potete chiamate il servizio clienti o fatevi sentire sulla loro pagina facebook.

La protesta dei rider è dovuta anche al fatto che Foodora ha licenziato (escludendole dalla app interna utilizzata per dare la disponibilità sui turni) due promoter di Foodora “colpevoli” di aver partecipato ad una riunione dei rider. La decisione, già incredibile di per sé è resa ancor più assurda dalle modalità con cui è stata comunicata: le due ragazze (Ambra e Ilaria)  sono state escluse dal gruppo WhatsApp interno dove è stato comunicato alle loro colleghe con un messaggio che erano state “rimosse dal gruppo” e quindi licenziate: «Ciao a tutte. Ambra e Ilaria sono state rimosse dal gruppo. Significa che non lavoreranno più per Foodora» per aver partecipato alle riunioni dei rider. Di queste cose se ne deve parlare con i superiori in ufficio, la solidarietà e la comunicazione tra colleghi è severamente punita, basta un click. Ma i problemi non finiscono qui, come racconta un rider a Radio Popolare l’azienda ha prima fatto intendere di essere disponibile ad un aumento di un euro lordo sulla paga oraria base, poi ha rifiutato di voler procedere con la trattativa ed è passata al contrattacco, imponendo questa nuova modalità di compenso “a cottimo”. Ma davvero si possono considerare i lavoratori di Foodora dei “collaboratori” senza diritti? Secondo Jamy Salati (22 anni, uno dei rider) i fattorini sono dipendenti a tutti gli effetti, con obbligo di indossare una divisa e sottoposti ad un controllo da parte dei vertici:

Voi protestate ma l’azienda vi ha risposto chiarendo che “l’occupazione per Foodora deve essere considerata un secondo-terzo lavoro. Non un primo. Per chi vuole guadagnare un piccolo stipendio e ha la passione per andare in bicicletta. Non un lavoro per sbarcare il lunario”. 
Guardi, questo non ce lo hanno mai detto quando abbiamo fatto i colloqui di lavoro. In realtà il rischio aziendale viene scaricato su di noi, lavoratori e lavoratrici, che tra il resto -come le dicevo-mettiamo noi i mezzi , gli strumenti del lavoro. Noi chiediamo delle garanzie, delle tutele minime, una paga oraria minima. Lei lo sa cosa rischiamo, quando dobbiamo fare le consegne con pioggia o neve? Se vai sotto i 15km/h, ti arriva un messaggio di accelerare. A me una volta che andavo piano per la pioggia il responsabile ha chiamato e mi ha detto: “Corri Jamy,molla i freni”.

Non chiamatelo lavoro, è un passatempo che consente di fare anche sport

La collaborazione si riduce sostanzialmente al fatto che il mezzo di lavoro (e la relativa manutenzione) sono a carico del dipendente (così come lo smartphone e le spese telefoniche necessarie per poter lavorare). In un’intervista alla Stampa Gianluca Cocco, co-managing director di Foodora Italia spiega che il suo è “Un team giovane di studenti che lavora nel tempo libero, facendo sport“. Insomma ringraziassero che così risparmiano sulla palestra. Un po’ come dire ad uno che scarica la frutta al mercato (o che fa il camallo al porto) che si tratta di un lavoro dinamico che consente di fare tanto esercizio fisico. Le controversie? Cocco preferisce vengano risolte “nel face-to-face” e non con incontri collettivi, perché così l’azienda può esercitare ancora maggior forza contrattuale sul lavoratore (ops, collaboratore). Ma alle proteste dei lavoratori si è unita la solidarietà dei ristoratori, alcuni hanno annunciato di voler aderire al boicottaggio. Forse è anche grazie a questo che l’azienda ha annunciato di voler aprire un tavolo di trattative, ne dà annuncio Deliverance Project, la pagina Facebook dei rider di Foodora
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