Fidel Castro: qualcosa di nuovo in Occidente

di Tommaso Giancarli

Pubblicato il 2016-11-26

Di Castro si potranno dire tante cose – della sua parabola umana, politica, ideologica (ammesso che il borghesissimo Fidel, mutato in dittatore socialista dalle circostanze, ne abbia mai avuta una), ecc. – ma non ora. Lasciamo che la polvere della storia si depositi su Cuba, e soprattutto sul resto del mondo, dato che i giudizi, …

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Di Castro si potranno dire tante cose – della sua parabola umana, politica, ideologica (ammesso che il borghesissimo Fidel, mutato in dittatore socialista dalle circostanze, ne abbia mai avuta una), ecc. – ma non ora. Lasciamo che la polvere della storia si depositi su Cuba, e soprattutto sul resto del mondo, dato che i giudizi, a maggior ragione quelli storici, sono sempre relativi.
Diamo invece un’occhiata alla funzione, per così dire, di Fidel Castro e del suo esperimento cubano. Il New York Times, in un lungo articolo d’altronde piuttosto equilibrato, definisce Castro “l’uomo che ha portato la guerra fredda nell’emisfero occidentale”. L’affermazione, formalmente corretta, sembra però curiosa; in un certo senso suona come “Spartaco, l’uomo che creò la discordia fra schiavi e padroni”. Forse allora non è tanto la guerra fredda, ciò che Fidel ha recato all’Ovest, ossia alle Americhe, bensì la guerra in generale; la guerra nel senso di conflitto, quel conflitto che molto spesso è alle radici della storia.
Non che mancasse la violenza, o che sia mai mancata, alle Americhe: ma si trattava di scontri fra élite, tentativi di divagare di regimi in difficoltà, avventurette nazionaliste, o al limite brevi sommovimenti indipendentisti, sia sul piano sociale che su quello patriottico, soffocati con rapida brutalità (vengono in mente, come esempi di quest’ultima fattispecie, il massacro dei braccianti colombiani in sciopero, poi trasfigurato ed eternato da Garcia Marquez, e il golpe contro Arbenz organizzato in Guatemala da Cia e United Fruit). Ma tutta questa pur variegata violenza era accomunata dalla mancanza, se non proprio di un fine – ché anzi ce n’erano -, di uno sbocco. Il continente bipartito era e doveva restare addormentato, fermo, obbediente, ligio alle regole già secolari della dottrina Monroe e alle sue dimostrazioni più recenti. Tutto questo fino a Fidel Castro; che non è il primo a provare, a ridare indipendenza e sovranità al proprio paese, a uscire dalla tutela di Washington, ma è il primo a riuscire. Forse perché è il più strano e il più improbabile, con la sua provenienza sociale, umana, politica – neanche da giovane, quando tutti lo sono, neanche da giovane lui è socialista; lo dovrà diventare, per forza di cose, ma che questa evoluzione lui l’abbia mai prevista o perfino auspicata, beh, non lo sapremo mai. Come sarebbe stato un Fidel senza l’inimicizia giurata degli Stati Uniti? Senza il bisogno dell’Urss? È una riflessione futile, come tutte quelle di questo genere, ma è stimolante.

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Fidel Castro con Camilo Cienfuegos (1959)

 
In ogni caso la presenza di Cuba a qualche chilometro dalle coste statunitensi, oltre a essere incredibile, è inaccettabile. Perché impone alla nazione imperiale, quella dal destino manifesto, una regola di, per così dire, anonimato: anch’essa, come tutte, ha i propri nemici, le proprie nemesi, e peggio ancora i vicini che non la calcolano e che vorrebbero comportarsi come se l’America – che già dal nome si pensa sintesi e rappresentante del continente – non esistesse. Invece Cuba ricorda agli Stati Uniti che la storia esiste, scorre, dunque muta, e che ogni gloria ha un tempo: mentre gli Stati Uniti pensano che la storia non esista, che essa sia esistita e servita fino a un certo punto, ma che, una volta iniziato il dominio americano, questa debba svanire o gelare. È d’altronde il senso neanche troppo nascosto di quello che poi si chiamerà “fine della storia”: il sogno, comune a tutti gli imperi da che mondo e mondo, di un’egemonia infinita.
Non è Cuba che si teme, sia chiaro: Cuba è un’isoletta piccola e povera, che con o senza embargo non è in condizione di minacciare gli Usa. È quello che Cuba sembra dire, che va riassorbito: e così si spiegano le campagne brutali, brutali anche per la norma delle dittature latinoamericane, contro i movimenti popolari in Centro e Sudamerica, o la paranoia ridicola per la presa del potere in Nicaragua da parte dei sandinisti. Fidel, che ha studiato dai gesuiti, diventa paradossalmente un memento mori per la potenza globale e invincibile che galleggia a poche miglia dall’Avana: da qui l’odio, da qui la paura.
Adesso, finita e archiviata la Guerra Fredda e anche la sbornia per il trionfo occidentale, giunte e passate sotto il peso delle proprie mancanze e della ovvia reazione (e Reazione) anche altre esperienze sudamericane che parevano impossibili, all’alba di un nuovo mondo che pare più multipolare, forse Cuba non serve più. O perlomeno non fa più scandalo, non spaventa, non dice nulla di impensabile. Fidel ha retto finché ha dovuto, finché la sua missione ha avuto senso; adesso, credo, poteva morire in pace. E la circostanza che sia sopravvissuto di così tanto alla Guerra Fredda, e abbia invece chinato il capo davanti a questo strano 2016, fa quasi sospettare che la sua missione abbia avuto più a che fare con i gesuiti di Santiago che con quei nojosi e indispensabili russi e coi loro libroni.

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