Facebook vuole fermare la diffusione di notizie false: ecco perché non funzionerà

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-11-15

Mentre Zuckerberg dichiara che il 99% delle notizie sul suo sito sono vere alcuni dipendenti di Facebook hanno comunicato l’intenzione di dare vita ad una task force per risolvere il problema della diffusione delle notizie false. Ma più che un nuovo algoritmo che funzioni silenziosamente e in modo opaco forse è meglio puntare su figure in grado di fare da mediatori e interpreti delle notizie

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A pochi giorni dalla vittoria di Donald Trump, che secondo molti esperti di Internet è stata facilitata dai social media (ormai non va già più di moda dire che è colpa di Wikileaks), qualcuno a Facebook ha deciso di mettere in campo una squadra anti notizie false per fermare (o tentare di arginare) la diffusione delle bufale sul social inventato da Mark Zuckerberg (e forse addirittura nell’Universo). A riferirlo è il Guardian che dà la notizia che alcuni dipendenti di Facebook hanno creato un team “non ufficiale”  proprio allo scopo di trovare una soluzione al problema.

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Un esempio di storia inventata di sana piana diventata virale su Facebook

Facebook è fatto di notizie falze!1

Problema che per Facebook non riguarda tanto il fatto di proporsi come un network di debunkers quanto di perseguire la linea già adottata contro account fake e profili falsi. Insomma Facebook vuole essere un posto per per notizie vere oltre che per persone vere, né va della sua credibilità e di conseguenza la possibilità di essere appetibile per gli inserzionisti (o almeno questo è quello che ci ha sempre raccontato). Ed è per questo che Zuckerberg, che non ha commentato la notizia sull’esistenza di questa squadra di cacciatori di bufale, ha ribadito che il 99% dei contenuti che gli utenti visualizzano sono autentici (affermazione che per altro non è di per sé verificabile). Ma è sufficiente l’esperienza di utenti “normali” per rendersi conto che dalla storia del cane abbandonato (che gira dai tempi in cui girava come catena via mail) fino alle notizie più elaborate circa questo o quel piano del governo di turno per farci diventare tutti poveri (o farci morire di cancro) le notizie false rappresentano uno dei contenuti di maggiore successo sui social network. Le bufale sono fonte inesauribile di discussione, di articoli di approfondimento e di debunking, di meme ironici e di dibattito politico per coloro che – da Trump a Salvini passando per il PD – ne fanno un sapiente uso ai fini della propaganda elettorale.
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Non è che in passato Facebook non abbia tentato di porre un rimedio alla questione, ad esempio da qualche tempo (inizio 2015) è possibile segnalare anche le notizie false in modo che – qualora la segnalazione venga verificata – lo staff rimuova il post incriminato e  prenda i consueti provvedimenti nei confronti dell’utente colpevole. La cosa però evidentemente non funziona, un po’ perché il meccanismo della segnalazione è sostanzialmente affidato alla buona volontà degli utenti, un po’ perché se una notizia falsa circola all’interno di un gruppo di persone che non la ritiene tale non verrà segnalata e di conseguenza continuerà ad essere diffusa. Secondo Buzzfeed il problema è dovuto al fatto che le notizie false e le bufale presentano un alto livello di engagement, ovvero di coinvolgimento da parte degli utenti (qualcuno ha iniziato a chiamarli webeti ma  è una definizione che non mi piace, così come non mi piaceva utonti). Secondo Walter Quattrociocchi del Laboratorio di Computational Social Science all’IMTLucca, che di recente ha pubblicato Misinformation, guida alla società della disinformazione e della credulità il problema è dovuto al fatto che le echo chamber esistono anche sui social network e ogni utente fa parte di una o più “stanze” dove notizie simili (vere o false che siano) circolano rinforzando quelle che sono le sue credenze o opinioni rispetto ad un argomento.

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credits Tobias Rose-Stockwell via Medium.com

Questo è particolarmente accentuato dal funzionamento dell’algoritmo che regola il news feed di Facebook che tende a presentarci notizie che sa che ci piaceranno (e quindi creeranno più engagement) rispetto ad altre di segno opposto. In fondo ciascuno di noi solitamente mette il “mi piace” o segue pagine e persone con le quali abbiamo qualche affinità (dai gusti musicali alle posizioni politiche) quindi risulta più complicato uscire dalla scatola di specchi che ci siamo creati all’interno di Facebook e che ci rimanda costantemente un frammento di quello in cui già siamo disposti a rispecchiarci. Un concetto che Tobias Rose-Stockwell ha spiegato molto bene nel suo articolo che spiega il modo in cui funziona la nostra era dell’informazione mediata dai social media: persone con idee diverse non cercano un punto di contatto, un terreno comune, ma sono maggiormente spinte a segregarsi all’interno di aree abitate da persone che la pensano come loro. Di fatto quella che io “vedo” su Facebook è una realtà che può essere leggermente (o profondamente) diversa da quella “vista” da una persona che ha idee politiche diametralmente opposte alle mie (ad esempio quella del mitico Fond. Mauri di Avanguardia Nera e altre pagine fasciogentiste).

Chi vuole sentirsi dire la verità?

Non è necessario parlare di teorie del complotto assurde (ad esempio i rettiliani) o casi di debunking più complessi (ad esempio la pletora di teorie formulate sul perché si sono fuse le travi d’acciaio del World Trade Center) si può fare un esempio anche per cose più semplici: i frigoriferi abbandonati per strada, l’aumento o meno dei posti di lavoro in seguito al Jobs Act, la storia dei soldi agli immigrati o – più di recente – la bufala su Luigi Di Maio che si ritira dall’Università tutte cose sulle quali esistono dati e numeri che dovrebbero facilitare la capacità di discernere il vero dalla propaganda. Tutto questo secondo alcuni ha aiutato Trump ad essere eletto, ma anche questa storia potrebbe non essere del tutto vera e del resto non sappiamo quanti dei suoi elettori abbiano usato Facebook come fonte primaria di informazioni, magari semplicemente i racconti fatti da Trump durante la campagna elettorale erano più coinvolgenti dal punto di vista emotivo delle proposte avanzate dalla Clinton. Gli elettori americani, così come gli elettori che hanno preso parte a tutte (si fa per dire eh) le elezioni della storia, hanno scelto di credere a quello che ritenevano gli convenisse di più. Non è colpa (o merito) di Facebook se Trump ha vinto, semmai è merito di coloro che hanno organizzato e gestito la sua campagna e che hanno saputo sfruttare questo meccanismo. Per parecchio tempo abbiamo creduto che i risultati di Google (benché “corretti” dall’algoritmo del motore di ricerca) ci rappresentassero la “verità” o la realtà delle cose, eppure sono anni che la notizia sui “vaccini che provocano l’autismo” è tra i primi risultati. Questo non dipende da Google ma dal modo con il quale vengono effettuate le ricerche e soprattutto dal cosa vogliamo trovare. In questi giorni anche Google, finito nell’occhio del ciclone con l’accusa di “aver influenzato l’esito della campagna elettorale” lasciando che le notizie false si diffondessero, ha annunciato di star studiando provvedimenti nei confronti quei siti che le pubblicano (punendoli ad esempio togliendo gli ads). C’è infine un problema che Zuckerberg ha evidenziato nel suo post pubblicato dopo i risultati delle Presidenziali: ci sono notizie dove la maggior parte della storia è giusta o corretta ma dove vengono omessi alcuni dettagli al fine di orientare l’opinione verso un’interpretazione invece che un’altra. Queste storie verosimili sono uno dei motivi per cui qualsiasi metodo di controllo della diffusione delle bufale “imposto dall’alto” (vale a dire da Facebook) è destinato a fallire, senza contare che non è Facebook (o Google) ad essere fatto di notizie false ma sono gli utenti a crearle e diffonderle. Ed è per questo che i metodi di controllo, che potranno funzionare magari per eliminare gli articoli sulla terra piatta, non saranno in grado di arginare tutte quelle mezze verità che – di fatto – costituiscono il sale della propaganda politica. Ma soprattutto un eventuale censura nei confronti di certe notizie non aiuterà i lettori e gli utenti a dotarsi degli strumenti per elaborare il flusso di informazioni che arriva ora immediato, ovvero subito e senza mediazione da parte di qualcuno più competente (una volta erano i giornalisti, oggi servirebbe forse una nuova figura professionale) in grado di discernere e magari semplicemente indicarne l’esistenza, senza giudizi di valore l’attivazione di certi meccanismi di creazione di notizie “false”.

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