Vi racconto come sono stato licenziato dalla Chiesa e sono diventato freelance

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-11-03

Don Mario Bonfanti è stato «cacciato» per le sue posizioni di inclusione e apertura sulla famiglia, sull’omosessualità e sulla «vita». Ci ha spiegato come sono andate le cose in questo colloquio

article-post

«Sui giornali è uscito un po’ di tutto, anche cose non corrette», mi racconta don Mario Bonfanti a distanza di qualche anno. «Come il fatto che io avrei scritto su Facebook che sono prete felicemente gay e che sia stato questo a scatenare la reazione della chiesa. Non è vero». Le difficoltà tra la chiesa e l’omosessualità (di don Mario) risalgono infatti a molto tempo prima. E sono dovute alla sua presa di posizione rispetto a un compagno di convento. «Sono entrato in seminario dopo le medie, dai missionari, poi sono passato in convento dopo la maturità. In quel periodo un mio compagno di studi, entrato con me, è stato sorpreso in un luogo di prostituzione gay a Milano. È stato sbattuto fuori in modo brutale e violento». Non è un gesto poco cristiano?, domando io da agnostica. «Direi anche poco umano», mi risponde don Mario. Ci sarebbe stata la stessa reazione se fosse stata una donna? Non è semplice rispondere. Nel percorso per diventare prete, immagino, può capitare di fare errori o di «cadere in tentazione». Un solo errore e ti sbattono fuori?
 
«NON POSSO OBBEDIRE»
«Ci fu addirittura proibito di incontrarlo». Mario però non accetta il divieto. «Ho detto al provinciale che io non avevo letto nulla nel vangelo che giustificasse quella loro disumana decisione. Ho detto che non potevo e non volevo obbedire. “Io lo incontro”. Forse è questo che ha giocato male per il mio futuro». Da quando Mario ha detto che non avrebbe obbedito, sono cominciate le insinuazioni: se lo difende – questa forse è stata l’inferenza sballata – allora deve avere qualcosa da nascondere anche lui. Qualcuno ha anche insinuato che c’erano delle foto, che però Mario non ha mai visto, pur avendole chieste centinaia di volte. «Non le ho viste perché non esistono. Erano solo bugie per farmi cedere. Oggi lo chiameremmo stalking». In seguito a questa vicenda, Mario esce da quel convento («non aveva senso questo modo di vivere per me») e rimane a casa per qualche anno. Era ancora giovane – era entrato in seminario ragazzino – e, poco più che ventenne, aveva voglia di capire se la sua fosse un’illusione o un desiderio profondo che le difficoltà non avrebbero intaccato.
convento-da-ordem-de-cristo-de-tomar
«SONO EMIGRATO PER DIVENTARE PRETE»
Mario non ha dubbi: vuole diventare prete. Ma entrare in seminario non è facile. «Alcuni frati sono intervenuti alimentando quelle voci passate, cercando di impedirmi di entrarvi. In modo abbastanza rocambolesco sono riuscito a diventare prete in Sardegna, a trovare cioè un vescovo che mi accogliesse. Insomma sono emigrato per diventare prete. A Milano era impossibile. Ovviamente non me l’hanno detto con chiarezza. Mi hanno detto “sei troppo grande, hai già studiato (teologia), perché non riprovi tra qualche anno?”. Se ero già grande allora, sarei stato ancora più grande dopo qualche anno; mica torno giovane! Mi avessero almeno detto chiaramente di no, prendendosi questa responsabilità. Invece no, “vediamo, ripassa, ritenta”». E io, che di preti e di chiesa so più o meno quanto letto nei Promessi Sposi, non posso non pensare a «sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire».
 
SARDEGNA
Emigrare non basta perché al momento di diventare prete è intervenuto il Vaticano a bloccare l’ordinazione di don Mario. Con motivazioni, ancora una volta, molto vaghe: «voci a Roma». Si chiedeva al vescovo di sospendere l’ordinazione perché la gente mormora. Il vescovo, cui spettava l’ultima parola, ha fatto un gioco di diplomazia cattolica. Ufficialmente ha detto al Vaticano che avrebbe sospeso l’ordinazione di Mario quel giorno, ma che l’indomani l’avrebbe ripresa. «Dopo tre giorni mi ha ordinato. Ha obbedito formalmente, poi ha fatto come voleva». Non ci vogliono motivi seri per bloccare un’ordinazione – almeno più seri di qualche pettegolezzo? Inoltre, l’orientamento omosessuale costituirebbe una ragione sufficiente? Non è necessario un comportamento in violazione della promessa di castità? E se il comportamento non c’è stato, può una preferenza costituire un elemento di colpevolezza futura o potenziale in una specie di precrimine clericale? «In quegli anni – aggiunge don Mario – non c’era ancora l’Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri in cui non solo si considerava come impedimento per l’ammissione al sacerdozio l’essere scoperti con un altro uomo, ma lo stesso essere gay [ecco quanto dice il documento al proposito: «Alla luce di tale insegnamento, questo Dicastero, d’intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall’Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate».] Era un criterio molto restrittivo, che poteva giustificare una caccia alle streghe. Bastava una voce». Ma io continuo a domandarmi: la castità non è castità? Se desideri un uomo o una donna non è uguale, a condizione che la rispetti? Risponde don Mario: «Lasciamo da parte il celibato, che non è affatto un prerequisito essenziale per essere sacerdoti visto che nella Bibbia si dice che i vescovi si sposavano, anche più di una volta. Ma forse di questo dovremmo parlarne più avanti in modo approfondito».
ratzi
CAMBIA IL VESCOVO
Per tre anni va tutto bene per don Mario. Poi però cambia il vescovo. E cambia anche tutto il resto. Il precedente sapeva che era gay, perché Mario non l’ha mai nascosto. A volte la gente gli telefonava per lamentarsi di come era vestito, magari al mare, e ne ridevano insieme. Il nuovo vescovo alla prima telefonata è andato nel panico, e ha pensato che la soluzione migliore fosse offerta dalle terapie riparative. «Ha chiamato uno di questi posti dove vengono mandati i preti che hanno “difficoltà” – mi fanno ridere queste parole – per aiutarli».
a-bishop-saint
TERAPIA RIPARATIVA
Aggiustare ciò che era non allineato doveva sembrare però al vescovo un’idea giusta per il bene di don Mario. E così «prima di parlarne con me il vescovo aveva già chiamato uno di quei posti e aveva avvertito che sarei andato. Durante il colloquio, in cui con molti giri di parole doveva dirmi questo, io ho chiesto: “ma il problema è che sono gay?”. Ho dovuto dirlo io, visto che per lui quella parola sembrava impronunciabile. “E allora?”, ho aggiunto. “Ti aiuteranno in quel posto” mi ha risposto. “Io non ho alcun problema né con l’essere prete né con l’essere gay, forse è lei che hai dei problemi con il mio essere gay e sarebbe, quindi, meglio che ci andasse lei lì a farsi curare. Io non ci vado”». E così don Mario se ne torna a casa, lasciando il vescovo a vedersela con la parrocchia che non capisce perché don Mario non c’è più, se torna, quando torna. «È successo un putiferio. Le persone hanno fatto striscioni per mesi chiedendo di me. La giustificazione offerta era formale e molto banale: andavo via per studiare. Molto credibile, no?». Don Mario inizia a collaborare con la sua parrocchia (in provincia di Lecco), lì il parroco è molto comprensivo e si fida di lui. E già che è lì, don Mario ne approfitta per studiare. Fa un master in mediazione familiare, approfondisce la comunicazione non violenta di Marshall B. Rosenberg, si specializza in programmazione neurolinguistica, coaching e varie altre cose. La diocesi di Milano, dopo un po’ in cui don Mario è sospeso in uno strano limbo, lo contatta per chiedergli una ufficializzazione. «Sono entrato in una comunità pastorale. Per qualche anno è andata molto bene. Finché tutto si è ripetuto in modo simile al passato».
 
LA CHIESA SI AMMORBIDISCE?
La speranza di don Mario era che la chiesa cattolica potesse ammorbidirsi su alcune questioni. Erano gli anni, ricorda, in cui era uscito il libro Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini. Il cardinal Martini si discostava parecchio dal Vaticano, ovviamente da cardinale cattolico e quindi con parole pacate, ma comunque era un segnale di rottura. Qualche anno dopo viene tradotto in italiano il libro di Hans Küng, Salviamo la chiesa. «Questi libri e le dichiarazioni di altri vescovi mi avevano dato la speranza che ci fosse la possibilità di qualche apertura nella chiesa cattolica. Intanto dovevo vedermela con dilemmi molto concreti. C’era una coppia, entrambi con precedenti matrimoni finiti, che vivevano insieme e avevano un figlio che doveva fare la comunione. Il ragazzino non riusciva a spiegarsi il fatto che lui stesse per fare la prima comunione, mentre i suoi genitori non la facevano – non potevano farla perché divorziati. Non sapevano come spiegarlo al figlio, che insisteva e domandava loro “ma allora Gesù non è buono?”. Hanno chiesto aiuto a me. Loro capivano le ragioni del divieto e lo volevano rispettare, ma si trovavano in questo conflitto e non sapevano come correggere il messaggio che passava al figlio: “Dio non è buono, non accoglie chi ha sbagliato”. Mi ha fatto molto riflettere. Ne parlavo spesso nelle prediche. Il Vaticano ha delle leggi, e certo non è facile cambiarle in tempi rapidi, ma non sono nemmeno intoccabili. In alcune situazioni concrete bisogna prendere delle decisioni. Ci possono essere delle eccezioni. E poi possiamo usare quel margine lasciato in ogni applicazione di regole universali. Pensiamo a “non uccidere”. È una legge universale, ma tutte le legislazioni contemplano l’attenuante della legittima difesa. Cioè ci sono dei margini interpretativi. C’è un contesto che non possiamo ignorare. Era giusto escludere quei genitori – e tante altre persone – dalla comunione?».
martini_cardinale_1
«MA ALLORA GESÙ È BUONO OPPURE NO?»
In quel momento don Mario credeva che qualche cambiamento si potesse fare dall’interno. Era convinto, o sperava, che per alcune decisioni non servisse aspettare le decisioni del Papa. Non si sarebbe potuto aspettare da lui un cambiamento della legge che vieta la comunione ai divorziati (su comunione e divorzio si veda per esempio qui), e il papa non sa nulla di loro. «Intanto li facciamo vivere in quel dolore? Possiamo fare una eccezione? Ha senso impedire loro di fare la comunione? Alcuni hanno deciso di aggirare quel divieto. Io ho iniziato a farlo». E don Mario inizia a cambiare anche alcune regole ferree nei corsi prematrimoniali che svolgeva. Non è assurda la dottrina sui metodi prematrimoniali e sulle proibizioni? «È ovvio che i fidanzati usino metodi contraccettivi, e menomale! Li aiutavo però a ragionare su cosa ci fosse dietro queste norme tanto rigide e per loro incomprensibili. Magari un invito a non sottovalutare l’impegno preso, a vivere il sesso in modo responsabile e da persone adulte. Ma il divieto se è assoluto rischia di essere troppo rigido. E poi la responsabilità personale è sempre ciò che conta. Che io sappia vige ancora la norma cattolica che risale a san Tommaso, cioè che l’ultimo arbitro della legge morale è la coscienza. Non è nemmeno Dio. Non può essere il Papa a decidere, ma ognuno di noi dopo aver ragionato e valutato in coscienza. Poi – certo – occorrerebbe approfondire il termine “coscienza” e lasciarsi provocare dalle scoperte delle neuroscienze. Ma anche su questo lascerei spazio a un ulteriore approfondimento».
comunione_degli_apostoli_cella_35
LA FESTA DELLA FAMIGLIA
Oltre alla contestazione delle regole rigide, c’è un’occasione in cui la tensione tra apertura e rigore fa prevalere l’ipocrisia clericale del «si fa ma non si dice» sul tentativo di don Mario. «Avevo scritto su un foglietto della parrocchia – in occasione della festa della famiglia e della vita – alcune domande. Il giorno della festa della famiglia c’erano meno persone del solito in chiesa. Come mai? I separati e i divorziati non erano venuti a messa quel giorno. Se una festa diventa escludente, che festa “cattolica” è? “Cattolico” non significa universale? Se non si sentono famiglia, se si vergognano, non dovremmo forse rivedere la festa e renderla più universale e includente anche le nuove forme di unione? Considerazioni analoghe sulla vita: a volte è così esagerata l’enfasi sull’inizio e sul fine vita, che è come se il resto della vita non contasse nulla. E i diritti delle persone vive chi li cura? Le discriminazioni mentre vivono, non solo all’inizio e alla fine, chi le combatte? Su queste mie domande la rottura è stata, forse, inevitabile – era appena arrivato Angelo Scola a Milano, un vescovo certamente poco aperto alle novità».
 
La seconda parte dell’intervista a don Mario sarà pubblicata giovedì prossimo.

Potrebbe interessarti anche