Così Renzi compra il sì al referendum con la manovra

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-10-16

La Legge di Stabilità Elettorale 2017 scritta dal governo con tutti e due gli occhi puntati sulle urne. Rischiando sulle coperture e con Bruxelles (e fa bene). Se vince, probabilmente il governo sarà chiamato ad altre correzioni in corsa. Se perde, non saranno problemi suoi

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Un piccolo genio. Matteo Renzi presenta la sua Legge di Stabilità 2017 (che potremmo definire LSE: Legge di Stabilità Elettorale) con interventi per 27 miliardi di euro che mirano a raggiungere un obiettivo di deficit fissato al 2,3% del PIL per il 2017. Un 2,3% poco meno del 2,4% che arriverà probabilmente a fine 2016, molto più di quell’1,8% che era nelle previsioni un anno fa per il 2017, sempre considerando che tutti questi numeri ad oggi sono scritti sull’acqua visto che si basano su obiettivi di previsione e crescita ottimistici e contestati da UPB e Bankitalia (ma non è detto che non abbia alla fine ragione Padoan, il quale non a caso ha ricordato che le previsioni governative dell’anno precedente erano sbagliate per eccesso di pessimismo).

Così Renzi compra il sì al referendum con la manovra

Conviene fare un passo indietro per ricordare come si è arrivati agli attuali saldi: nei mesi precedenti il governo aveva chiesto a Bruxelles, vista l’eccezionalità della congiuntura economica negativa, di mantenere il deficit/PIL al 2,4% come nel 2016, ottenendo così maggiore spesa. Bruxelles, in linea con quanto deciso in altri casi, aveva accordato il principio ma non i numeri, chiedendo di rimanere comunque nei confini del 2,2%: questo aveva generato una caccia alle coperture che aveva portato anche a ipotizzare tagli lineari ai ministeri e al Fondo per la Sanità. Alla fine il governo ha scelto una posizione mediana, scegliendo un target del 2,3% che ha permesso di tenere il punto. Una “vittoria” sui decimali, quindi. Proprio quei decimali che non appassionavano Renzi. Il riepilogo di entrate e spese, che vedete qui riepilogato nell’infografica di Repubblica, spiega che c’è maggiore spesa in deficit: l’asticella del deficit fissata al 2,3% del Pil offre al governo cinque miliardi di spazi aggiuntivi rispetto al 2% indicato dalla nota di aggiornamento al Def al netto delle «circostanze eccezionali» da trattare in Europa. A dispetto di quanto affermato ieri, per far quadrare i conti della legge di bilancio, intervengono 2 miliardi attesi dalla rottamazione delle cartelle all’interno dell’operazione Equitalia. I miliardi, ha avvertito in conferenza stampa lo stesso ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, sono «una prima stima».
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Nelle slide pubblicate ieri dal governo con chiari intenti di propaganda non è possibile ricavare un quadro generale di risorse e impieghi. Ad oggi quindi è impossibile commentare poco più dei saldi, che peraltro ballano su parecchi giornali (il Sole 24 Ore stima in 4 miliardi le entrate dalla rottamazione dei ruoli, ad esempio). Sul versante della spending review circa 3,3 miliardi (700 milioni in più dei 2,6 miliardi indicati nella Nota di aggiornamento del Def) dovranno essere garantiti dal meccanismo di rafforzamento della centralizzazione degli acquisti della Pa e dall’ottimizzazione selettiva dei budget dei ministeri.  Una serie di altre decisioni rimane ancora da spiegare nel dettaglio.

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L’infografica della Stampa sugli effetti sul PIL della Legge di Stabilità 2017 (13 ottobre 2016)

Ad esempio la tabella dell’impatto sul PIL. Curioso infatti che lo stesso ministro Padoan parli di due miliardi e mezzo di tagli di spesa (pubblica) con un impatto di decrescita sul PIL pari a -0,05: lo stesso ministro dell’Economia aveva detto al Messaggero che la riduzione della spesa pubblica in questi anni è stata causa di minor crescita: ma se l’impatto di 2642 milioni di euro di tagli è “solo” -0,05 sul PIL forse ci troviamo davanti a una contraddizione. Ancora più curioso è l’impatto sul PIL di due diversi provvedimenti a confronto: Industria 4.0 (ovvero il piano per gli investimenti privati presentato agli industriali qualche tempo fa da Carlo Calenda) e i provvedimenti per le pensioni (ovvero l’Anticipo Pensionistico) e gli aumenti degli statali: il pacchetto competitività avrà uno stanziamento di 347 milioni di euro e impatterà sul PIL per un +0,15%; il pacchetto delle nuove politiche per le pensioni avrà invece uno stanziamento pari a 3,150 miliardi di euro e avrà un impatto sul PIL pari al +0.06. Insomma, uno stanziamento di un decimo rispetto all’alto impatterà sul PIL per il triplo di quanto farà quello che vale dieci volte tanto.

La Legge di Stabilità Elettorale

Un piccolo genio, dicevamo. Del crimine, ad essere precisi. Francesco Daveri sul Corriere della Sera punta il dito sul tallone d’Achille del governo, notando la scarsa riduzione della spesa e imputando ad essa la timidezza nel taglio delle tasse:

Nel complesso, il governo ha operato con una logica simile a quella seguita nei suoi primi anni di attività. Le riduzioni di spesa – malgrado i ripetuti annunci sull’efficacia della spending review già attuata – sono assenti o tenute al minimo, specie nei comparti più politicamente controversi. Il guaio è che la mancata riduzione della spesa riduce lo spazio per riduzioni di imposta più corpose. E così le tasse scendono solo in modo selettivo (Ires e non Irpef) e il posto della riduzione delle imposte viene preso da nuovi incentivi e sussidi che suggeriscono alle imprese di innovare, di usare i big data e altri comportamenti ritenuti virtuosi.
Con più coraggio, ad esempio sforbiciando la giungla di deduzioni e detrazioni (a cominciare da quella per le spese sanitarie, quella per gli interessi sui mutui, quelle di cui le imprese godono in mille forme) si potevano trovare i miliardi necessari per finanziare la riduzione dell’Irpef e del numero delle aliquote. Non un’impraticabile flat tax con una sola aliquota ma una semplificazione del sistema fiscale che avrebbe dato un maggior reddito disponibile nelle mani delle famiglie. Tutto ciò è invece rinviato almeno al 2018.

Da queste parti invece non siamo d’accordo e si concorda invece con Padoan sul fatto che la riduzione della spesa pubblica comporta in primo luogo una riduzione della crescita. Così come sembrano ridicole le minacce di Bruxelles riportate da Filippo D’Argenio su Repubblica a proposito di presunte procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia:

Dal cuore della Commissione spiegano che i patti erano diversi. «L’accordo raggiunto tra Juncker, Schulz, Moscovici e Renzi era al 2,2%. Una concessione già generosamente oltre le regole nonostante l’impegno preso per iscritto da Padoan a maggio e possibile solo grazie all’impegno di Juncker e Schulz, visto che Moscovici non sarebbe andato oltre il 2,1%. Ma ora è troppo, non ci sono margini». Dunque lo scostamento di appena 1,6 miliardi è la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Che rende politicamente e legalmente impossibile giustificare la flessibilità di fronte ai partner e alle altre istituzioni Ue.
Se Juncker fino all’altro ieri si è battuto per aiutare Renzi, ora è costretto a cambiare linea. E la minaccia giunta a Roma è chiara: «O riportate il deficit al 2,2% entro il 30 ottobre, oppure la manovra non passerà». Ma non finisce qui. Bruxelles è pronta, e può farlo, anche a togliere la flessibilità concessa per il 2015- 2016. A quel punto, cancellati i 19 miliardi di bonus, i conti deraglierebbero e dunque Bruxelles metterebbe subito, a novembre, l’Italia in procedura d’infrazione (se aspettasse di agire sul 2017 dovrebbe attendere maggio).

Il punto invece è che Renzi ha giocato la sua carta della Legge di Stabilità 2017 con tutti e due gli occhi puntati sul referendum del 4 dicembre. Con il (sacrosanto) blocco dell’aumento dell’IVA e l’azzeramento di una clausola di salvaguardia tra l’altro implementata dal suo stesso governo, con la quattordicesima alle pensioni minime e l’APE Social, con gli aumenti dei contratti pubblici Renzi punta tutto il (magro) piatto della spesa sul tavolo del referendum, sperando di uscirne vincitore. In questo modo sottrae risorse ad investimenti che avrebbero garantito un maggiore ritorno sul PIL negli anni a seguire (come la tabella del MEF testimonia) cercando di garantirsi però un ritorno politico che dovrebbe fruttare nel referendum. Lo fa rischiando sulle coperture e con Bruxelles (e fa bene). Ma il principio è ben evidenziato da Ferdinando Giugliano su Repubblica: «L’impressione è però che, col passare del tempo, la sua politica economica si sia distratta sempre più da una visione di lungo periodo, per concentrarsi sugli obbiettivi di breve scadenza».  Se vince, probabilmente il governo sarà chiamato ad altre correzioni in corsa. Se perde, non saranno problemi suoi.

Leggi sull’argomento: Così Renzi copia i 5 Stelle sui prestiti alle piccole e medie imprese

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