Così la Germania cresce a spese dell'Europa

di Luca Conforti

Pubblicato il 2014-10-29

La bilancia dei pagamenti di Berlino ride: i tedeschi dovrebbero spendere all’interno di Eurolandia. Invece investono in Usa e Cina. E rafforzano una generazione di futuri concorrenti

article-post

Nell’eterna attesa che arrivi l’Europa politica sta sparendo l’Europa economica. Fuori dalla stanze del complesso Justus Lipsius di Bruxelles le aziende e i consumatori che utilizzano l’euro non si comportano più come un sistema unico, ma sembrano tornati indietro al mercato comune, in cui le attività verso i paesi partner erano un’opportunità in più, non un sistema integrato. L’Eurosummit della settimana scorsa sembrava più un vertice intergovernativo che il passaggio verso una gestione comune della crisi. Nel senso che l’obiettivo non era portare l’economia lontano dalla recessione, ma permettere ad ogni capo di Stato di tornare in patria annunciando di aver vinto.
 
ADDIO EUROPA
Di fronte ai balbettii della politica, le potenti forze del mercato procedono lo stesso e quelle forze dicono che c’è un solo grande vincitore, la Germania. Si parla spesso del fantascientifico surplus commerciale tedesco, molto meno spesso si sottolinea che fino all’euro (per l’esattezza nel 2003) la bilancia dei pagamenti di Berlino era in pareggio. Ancor meno chiaro è cosa se ne facciano i tedeschi di un tesoro cumulato che Allianz calcola in 1800 miliardi (praticamente il Pil annuale della Francia). I partner Ue hanno chiesto a più riprese un aumento dei salari o degli investimenti pubblici per “rimettere in circolo” quei capitali. Ma sono vie secondarie rispetto all’esito più ovvio previsto dalla teoria economica: le imprese tedesche, nelle cui casse affluisce ogni trimestre una tale fortuna, dovrebbero mettersi a spendere quella somma soprattutto all’interno di Eurolandia. Sarebbe il modo più semplice per mutualizzare i successi dell’euro, dopo anni passati a contrattare solo come ripartire i sacrifici.
 
USA E CINA
Invece i colossi come Siemens, Volkswagen, Daimler, Basf, Deutsche Bank, Allianz, Bayer, Lufthansa, Springer non stanno facendo incetta di concorrenti e fornitori in Europa, ma stanno percentualmente investendo molto più in Usa e Cina. Solo quest’anno, rileva l’Economist ben 65 miliardi di euro sono servite per le acquisizioni americane delle grandi corporazioni tedesche. La Bundesbank ci dice il resto: il valore delle partecipazioni – dirette o solo finanziarie – di soggetti con passaporto tedesco è di 1200 miliardi di euro, ma solo 400 di questi sono in altri paesi euro, peraltro il flusso contrario, gli acquisti di altri paesi euro in Germania, pareggiano gli esborsi tedeschi. Invece per il paese leader ci si aspetterebbe lo squilibrio fosse molto più forte, cosa che avviene puntualmente con i paesi più lontani (emergenti + Stati Uniti) dove gli asset comprati dai tedeschi, valore poco meno di 600 miliardi, surclassano quelli comprati dagli stessi soggetti in Germania (150 miliardi). I dati della banca centrale tedesca si fermano al 2012, ma la tendenza lascia intendere che nel giro di uno-due anni più del 50% della ricchezza tedesca all’estero sarà fuori dalla comunità europea a 28.
unmittelbare_und_mittelbare_direktinvestitionen_en
Perché? Presi singolarmente, gli operatori economici tedeschi non investono tempo e denaro nell’Unione tanto quanto fa il loro governo. Si possono trovare delle attenuanti, ad esempio operazioni che coinvolgono marchi storici hanno sempre dei risvolti politici che complicano la vicenda, a volte fino a farla fallire. Si pensi ai casi italiani di Autostrade-Abertis o Alitalia-Air France. E anche quando le acquisizioni vanno in porto non manca l’inevitabile indignazione popolare come quando i marchi della nostra moda nazionale finiscono nei grandi gruppi francesi o quando la Peugeot è stata salvata dai cinesi. Le operazioni cross border sono tortuose e ma non impossibili. Neanche nella decade pre-crisi i tedeschi erano i più attivi in questo particolare campionato europeo, appena meglio quando si considerano gli investimenti diretti, soprattutto però rivolti a paesi di “area” coma Rep. Ceca, Slovacchia e Polonia. I numeri gli stanno dando ragione. Le scommesse in Cina e Brasile hanno dato ritorni infinitamente più alti.
 
NAZIONALISMO
Ci sarà anche qualche politico italiano, francese o spagnolo che considererà questo disinteresse uno scampato pericolo. Naturalmente è l’esatto contrario: non solo le aziende più competitive del continente non esporteranno i loro modelli all’interno di eurolandia, ma li imporranno altrove rafforzando una generazione di futuri concorrenti. Inoltre quando quelle multinazionali – dai cda, ai dipendenti, ai sindacati – dovranno far capire ai loro rappresentanti a Berlino quanto sono disposti a scarificarsi per l’Europa la percentuale sempre più piccola del fatturato che arriva dalla periferia dell’euro darà il colpo di grazia all’eredità di Adenauer e Kohl. E guarderanno definitivamente altrove.

Potrebbe interessarti anche