Cosa succede se Renzi si dimette

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-11-18

Il premier è tornato a ripetere ieri di non avere l’intenzione di dare il suo assenso alla nascita di “governicchi”. Eppure bisogna votare una nuova legge elettorale per portare il paese alle urne. E dal risultato della mediazione dipenderà il risultato elettorale

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Con i sondaggi che danno vincente il no al referendum sulla riforma costituzionale torna d’attualità la discussione sullo scenario del dopo voto e su cosa succede se Matteo Renzi, come è probabile, deciderà di dare le dimissioni. Il premier è tornato a ripetere ieri di non avere l’intenzione di dare il suo assenso alla nascita di “governicchi”. Di certo in caso di sconfitta Renzi non può permettersi di rimanere a Palazzo Chigi alla guida di un governo pienamente delegittimato dal voto popolare, esattamente come in occasione delle sconfitte a Roma e Torino che però il premier all’epoca fece finta di non vedere.

Cosa succede se Renzi si dimette

“Se qualcuno vuole fare strani pasticci il giorno dopo, li fa senza di me. Io non sarò quello che si mette d’accordo con altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio. Ne abbiamo avuti, fanno anche alzare le tasse”, ha detto ieri in Sardegna. Messaggio chiaro, a 360 gradi, con un occhio alla minoranza del suo partito ma soprattutto alla politica di quel fronte del NO che mette insieme Monti e Salvini, Grillo e D’Alema e porta anche “Casa Pound a parlare di deriva autoritaria…”, ironizza, anche se in realtà era Forza Nuova quello dello slogan «No alla deriva autoritaria». “La classe politica sfrutta il 4 dicembre per riprendersi il potere che aveva perso. Vogliono tornare loro: se volete un sistema decrepito, delle paludi dei veti, di galleggiamenti e inciuci, riprendetevelo. Amici come prima”. Lui non ci sta, tiene a sottolineare più volte. E pur tornando a dire che questo voto “non è sul governo”, ribadisce il suo refrain: “o si cambia o se si vuole restare a galleggiare, ne trovano altri, si resta con i soliti”. Ecco perché per lo scenario post voto la strada è comunque stretta. Spiega oggi Massimo Franco sul Corriere della Sera:

Avere inchiodato per trenta mesi il Paese per approvare riforme bocciate dal popolo lo delegittimerebbe senza appello. In quel caso, il tragitto più verosimile sarebbe un altro governo chiamato a chiudere la legge di Stabilità e a rimodellare il sistema elettorale: l’Italicum approvato a colpi di fiducia, ultimamente è stato definito un pasticcio pericoloso dallo stesso Pd. A quel punto si tratterebbe di capire in quale direzione andrebbe la riforma, e quanto occorrerebbe per approvarla. Nell’ottica renziana, col No vincente bisognerebbe impedire al Parlamento di andare avanti oltre la primavera del 2017.
Dunque, il vertice attuale del Pd permetterebbe la formazione di un esecutivo per un periodo e con un obiettivo limitatissimi; e farebbe pesare i numeri in Parlamento per ottenere lo scioglimento delle Camere e un voto quanto prima, con Renzi saldamente leader del partito. Solo così marcherebbe la diversità virtuosa del suo esecutivo, e l’impossibilità di sostituirlo. Tempi più lunghi significherebbero la riapertura dei giochi tra i Democratici, con un esito imprevedibile per un segretario-premier indebolito dall’esito referendario.


Si va quindi verso un governo elettorale che avrebbe la chance di concludere il percorso della Legge di Stabilità 2017 e scrivere la nuova legge elettorale per Camera e Senato. Ma quale legge elettorale?

Quale legge elettorale?

La risposta alla domanda non è futile perché dalla legge elettorale dipende il risultato delle prossime elezioni. E soprattutto da cosa Renzi è pronto a cedere nella trattativa che dovrà giocoforza intavolare con le altre forze politiche. Lui ha detto in più occasioni che non intende favorire la nascita di una legge elettorale che non indichi il giorno dopo le elezioni chi ha vinto e chi ha perso. Il che vuole dire che, visto che nessun partito o schieramento si avvicina nemmeno lontanamente alla soglia del 51%, la nuova legge dovrà avere un premio di maggioranza. Allo stesso modo si è espresso ieri Luigi Di Maio, intervistato da Corrado Formigli e Paolo Mieli durante Piazza Pulita, ma con una variante: secondo il vicepresidente della Camera il premio di maggioranza dovrà scattare soltanto al raggiungimento di una certa soglia. Magari oltre il 40%, un obiettivo che però non sembra facilmente raggiungibile, ancora una volta, da tutti e tre i poli in gioco. Non è invece chiaro se il premio di maggioranza debba premiare un partito (come converrebbe al M5S) o una coalizione (come potrebbe convenire al centrosinistra e come oggi conviene al centrodestra).

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Il sondaggio su Renzi e l’Europa (Corriere della Sera, 15 novembre 2016)

Osserva però giustamente Massimo Franco che il governo-lampo per la legge elettorale potrebbe non essere tanto lampo. E soprattutto che la vittoria del NO potrebbe non costituire un viatico per la vittoria di Grillo:

Va capito se da quel momento non partirebbe un’operazione per prolungare la legislatura davvero fino al 2018, scavalcando i progetti renziani. Le difficoltà di riformare il sistema elettorale potrebbero legittimare un anno di lavoro. Influiranno in modo decisivo l’analisi e l’interpretazione di una sconfitta del Sì: se solo come l’archiviazione di Renzi, o come bocciatura di un modello di governo verticale e muscolare. Conterebbero sia la percentuale dei votanti, sia la differenza tra No e Sì. Le spinte per tornare a un sistema proporzionale, anche se temperato da un qualche premio per la coalizione vincente, sono forti.
Ma soprattutto, si va radicando la convinzione che in un Parlamento con partiti rappresentati su base proporzionale, un predominio del Movimento 5 Stelle diventerebbe impossibile. Nessuna formazione potrebbe prendere il controllo del Parlamento e del governo avendo appena un terzo o poco più dei voti. La frammentazione e la pluralità dei partiti diventerebbero non solo un handicap ma una garanzia. Dunque, il secondo paradosso è che il No probabilmente finirebbe per ridurre e non accentuare il rischio di un’egemonia di Grillo.

Insomma, se Renzi fa quello che gli conviene, farà anche quello che conviene anche a Grillo (una legge elettorale con premio). Se invece dovesse vincere una proposta di mediazione con il proporzionale puro il risultato sarebbe sì l’ingovernabilità, ma anche la possibilità di un ulteriore accordo di grande coalizione. Nella quale Renzi però difficilmente potrebbe essere presidente del Consiglio, visti i rapporti ormai logorati con l’intera opposizione e una campagna elettorale che contribuirebbe a divaricarli ancora di più. Un bel dilemma del prigioniero, insomma. Ma non bisogna dimenticare che la gabbia l’ha chiusa lui. Anche se le chiavi oggi le hanno gli altri.

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